Le testimonianze integrali dei rifugiati giunti in Europa con i corridoi umanitari
Pubblichiamo di seguito le testimonianze e i contributi consegnati a Papa Francesco nel corso dell'udienza odierna ai rifugiati, giunti in Europa attraverso i corridoi umanitari, e ai rappresentanti delle Comunità che li accolgono.
Meskerem, dall'"inferno" della Libia
Mi chiamo Meskerem, vengo dall’Eritrea. Sono uscita da ragazza dal mio Paese, avevo 15 anni con mia sorella Masa che ne aveva 23. Io non sono mai andata a scuola. Mia sorella doveva andare via perché era stata chiamata a fare il servizio militare. Che in Eritrea non si sa quando finisce. Mia madre con il cuore spezzato ci ha mandato via per salvare la nostra vita, ci ha dato tutti i soldi di casa e il suo oro. Abbiamo camminato tanto di notte fino al Sudan. Dal qui mia sorella ha organizzato il viaggio verso la Libia. Abbiamo attraversato il Sahara con un pick-up , eravamo tanti, uomini e donne. Se qualcuno cadeva giù, il pick-up non si fermava. Alcuni venivano rapiti già in questo percorso.
Prima di entrare in Libia ci hanno messo in un capannone pieno di gente, c’era un odore insopportabile. Eravamo prigioniere. Mia sorella ha iniziato a contrattare per uscire, loro hanno visto che aveva l’oro e lo hanno preso. Alla fine siamo riuscite ad uscire e abbiamo iniziato a lavorare un po'. In quel periodo riuscivamo a parlare con nostra madre ed io ero felice. Un giorno mia sorella non è più tornata a casa e da allora non so più niente di lei. L’ho cercata ovunque, senza successo. Dalla signora vivevo come una schiava e un giorno sono scappata e mi sono unita ad altri eritrei. Mi hanno portato in un capannone pieno di gente “Ghem ghem bari” che significa "Prima del mare".
Quelli che pagavano partivano a gruppi. Stando li ho conosciuto Suleiman, il mio futuro marito. Senza pagare non si parte. I capi del capannone mi hanno portato in una casa per guadagnare i soldi del viaggio. Sono stata lì sei mesi e ho subito violenze di tutti i tipi e “mi hanno mancato di rispetto”. Non mi reggevo più in piedi, mi hanno riportata nel capannone per partire. Lì ho incontrato di nuovo Suleiman lui ha avuto pietà di me e ha iniziato a proteggermi. Una volta ci siamo imbarcati siamo stati undici ore nel mare, è arrivata una barca della guardia costiera libica e ci ha riportato indietro. Siamo stati di nuovo imprigionati a Bem Kasher, a Tripoli. Siamo stati lì undici mesi. Aspettavamo che Unhcr venisse a registrarci. Io e Suleiman ci siamo sposati nel campo e nel campo è nata mia figlia. Un giorno mi è arrivata la telefonata dall’Italia, e mi dicevano che ero stata inserita nei corridoi umanitari. Alla prima telefonata non ci ho creduto. Poi alla seconda hanno iniziato a chiedermi i documenti, il nome di mio marito e di mia figlia. In quel momento ho sentito come un angelo che mi prendeva dalla terra e mi portava in volo oltre il mare fuori dall’inferno. Non riuscivo più a dormire, pensavo davvero partiremo? Mi sembrava impossibile. Poi ci ha chiamato anche l’Unhcr e allora mi sembrava più vero.
Ero molto felice, ma anche sull’aereo avevo paura, pensavo che mi avrebbero fatto scendere prima di partire. Il mio inferno in Libia è terminato dopo dieci anni. Mi piacerebbe tanto che anche quelli che sono rimasti indietro provassero la mia gioia. Ora sono incinta aspetto il mio secondo figlio, siamo molto felici perché mia figlia vive qui, va a scuola, lei non vivrà quello che io ho vissuto. Ora sono felicemente incinta. I miei ringraziamenti non saranno mai sufficienti, il mio cuore è pieno di gioia.
Anna Jabbour, fuggita da Aleppo
Sono Anna, vengo da Aleppo, sono cristiana. Penso molto spesso alla mia città, era bellissima. Con Subhi, mio marito, non volevamo lasciarla, abbiamo resistito fino al 2016. Avevamo la nostra vita tranquilla lì: le famiglie, il lavoro, gli amici, la parrocchia, i nostri sogni erano lì. Speravamo che la guerra finisse invece peggiorava di giorno in giorno. Uscivamo di casa e non sapevamo se saremmo tornati. Abbiamo visto morire vicini e amici, le bombe cadevano nell’ultimo periodo come una pioggia, tutte le persone urlavano, le sirene, i morti, i feriti, la distruzione ovunque, era un incubo. La nostra piccola Pamela era appena nata, aveva un mese, e per salvare lei abbiamo deciso di lasciare tutto e partire.
Siamo andati verso il Libano ma anche lì la situazione è andata peggiorando. Poi c’è stata l’esplosione del porto il 4 agosto 2020. Beirut è stata per metà distrutta, anche noi siamo rimasti un'altra volta senza casa. Non potevamo più vivere nemmeno in Libano. Ci siamo messi a cercare. Abbiamo sentito parlare dei corridoi umanitari, ci sembrava un sogno: la possibilità di vivere in pace, tranquillità, lavorare e impegnarci nella società, la possibilità per Pamela di vivere una vita “normale”.
Quando abbiamo fatto il primo colloquio, finalmente vedevamo un po' di luce , si era riaccesa la speranza. Siamo arrivati in Italia pochi giorni prima del Natale 2020, veramente per noi era Natale, una nascita nuova per noi. Erano già passati quattro anni… Tutto era diverso: fin dall’arrivo. Le persone ci sorridevano, ci accoglievano con i fiori, erano preoccupati per noi. Nei mesi seguenti abbiamo iniziato a scoprire Roma e l’Italia, a imparare la lingua, mia figlia ha iniziato subito la scuola. Non ci siamo mai sentiti soli, gli amici della Comunità ci hanno preso per mano e ci hanno insegnato a camminare. Fanno la cosa più bella del mondo: ti danno speranza, la cosa fondamentale per chi ha vissuto nel buio della guerra.
Oggi siamo sereni, mio marito lavora in una ditta di pulizie e io lavoro con una signora anziana, abitiamo vicino a lei. Pamela è felice di studiare e di avere gli amici della scuola. Abbiamo pensato di restituire il dono che abbiamo ricevuto e allora ci siamo impegnati. Un mese fa il terremoto che ha colpito la Siria e la Turchia ci ha buttato di nuovo nell’angoscia, ho pensato alla gente di Aleppo che aveva già sofferto tanto, ci chiediamo perché? Perché tutto questo male? alcuni miei amici qui hanno perso familiari, tanta gente vive per la strada e ha perso quel pochissimo che aveva. Prego e vorrei aiutare per dare loro una speranza. Santità, la ringrazio perché lei vuole bene ai migranti, prega e lavora per la pace. in Siria tutti sappiamo che Lei non ci ha dimenticato e ci ama.
Daniela Pompei, Comunità di Sant’Egidio
Siamo in tanti oggi: confusi tra chi è stato accolto e chi ha aperto le porte della sua casa e del suo cuore, in questo abbraccio che sono i corridoi umanitari. Essi sono nati dalla memoria dolorosa delle morti in mare, sono nati dal pianto e dalla preghiera. La preghiera e il dolore ci hanno aiutato a non rassegnarci: a riflettere, a lottare per costruire una via alternativa ai barconi. La preghiera e il dolore ci hanno spinto, costretto quasi, a quella creatività nell’amore di cui lei Santo Padre tante volte ha parlato. Dal 2016 ad oggi sono state salvate 6080 vite umane, giunte in Europa legalmente, arrivate soprattutto in Italia, ma poi in Francia, in Belgio e un limitato numero nel principato di Andorra e a San Marino. Una piccola luce di fronte al muro dell’impossibilità e dell’idea che non si possa fare niente. Questo è vero per chi è giunto sano e salvo, ma penso anche ai tanti richiedenti asilo che ci scrivono dai paesi in guerra o dai campi profughi. I Corridoi Umanitari sono una speranza anche per loro: c’è un’altra via possibile oltre a quella disperata dei viaggi in mare. Sono una via quando si vedono solo muri.
Santo Padre, oggi qui vediamo il futuro: un popolo misto, di gente diversa ma che costruisce un futuro fraterno e felice. Fratelli tutti! Aprire una via è stato l’inizio ma poi la sfida di ogni giorno è vivere insieme. Quanti bambini sono nati in questi anni! Quanti matrimoni e case arredate, ricongiungimenti, feste di laurea. Quanta vita che rinasce anche nei piccoli comuni spopolati. Anche problemi naturalmente, ma quanta vita! L’accoglienza ha messo in moto un movimento di integrazione e di pace. In tanti qui potrebbero raccontarlo. Parrocchie, associazioni, comuni, congregazioni religiose, famiglie, tante persone che hanno sentito la responsabilità di accogliere. E chi ieri è stato accolto, oggi è in prima linea per accogliere altri che arrivano.
“Insieme” è una parola fondamentale dei corridoi umanitari. L’accoglienza non la si può fare da soli. Per accogliere è necessario essere “insieme”. Ci siamo sentiti più comunità: questo è stato il dono inatteso dell’accoglienza. Accogli una famiglia che scappa dalla guerra e, con chi cerca riparo, scopri una comunità di persone che si aiutano e che, con te, lottano e sperano. Libano, Etiopia, Libia, Pakistan, Iran, Niger, Grecia e Cipro e in modo diverso l’Ucraina, sono gli avamposti degli otto corridoi umanitari da dove inizia la via sicura per arrivare in Europa. Sono arrivati cittadini Afgani, siriani, eritrei, congolesi, nigeriani, camerunesi, sudanesi, somali, yemeniti, irakeni, palestinesi, guineani, togolesi e da ultimo gli ucraini, soprattutto donne e bambini. Ora ci conosciamo, ma questa storia di amore e di amicizia è nata prima. E’ nata quando siamo andati a cercare nell’inferno dei campi profughi persone che non conoscevamo ma che già sentivamo fratelli e sorelle. Il bisogno è grande, tanti, troppi, continuano a morire. Continui a sostenerci Santo Padre, ci benedica, perché non diventiamo mai sordi al grido che sale da tanti luoghi di dolore. Sentiamo la responsabilità e l’urgenza di fare di più e di fare presto.
Daniele Garrone, presidente della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (FCEI)
Santità, caro fratello in Cristo, cari amici, dice la nostra Scrittura: “Rallegratevi con quelli che sono nella gioia; piangete con quelli che sono nel pianto” (Romani 12,15 CEI 2008). Oggi la nota dominante, nel vedervi così numerosi qui, è quella della gioia e della riconoscenza. Sappiamo che cosa avete patito e che cosa avete dovuto lasciare per arrivare fin qui e speriamo e vi auguriamo che qui possiate trovare una vita protetta, anzi benedetta. C’è un altro motivo di gioia e di riconoscenza: se qualcosa abbiamo fatto per portavi qui, lo abbiamo fatto come cristiani di diverse confessioni. È la dimensione ecumenica dei corridoi umanitari, che sempre, come chiese della Federazione, riscopriamo: tutti e tutte siamo raggiunti dalla stessa Parola di Dio, che ci dona speranza e ci chiama al servizio del prossimo, con una comune vocazione, che oggi vorrei esprimere con le parole del profeta Michea: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio" (Michea 6,8 CEI 2008). La gioia e la riconoscenza di oggi non tacitano però la seconda parte dell’invito: “Piangete con quelli che sono nel pianto”. Abbiamo tutti nel cuore l’ultimo tragico naufragio di chi non ha altra risorsa se non una rischiosa, per certi versi folle, traversata. Chi di noi è a Lampedusa, nel nostro osservatorio sulle migrazioni, ad accogliere chi ce l’ha fatta, testimonia di quali drammatiche storie ogni persona porti dentro di sé e spesso sul suo corpo. La condivisione del pianto deve muovere “a praticare la giustizia”: i corridoi umanitari sono uno dei modi per cercare di rispondere a questo appello. Non si tratta dell’ingenuo slancio caritatevole di anime pie o virtuose, mosse da un sentimentalismo irrealistico. Noi pensiamo sia una delle ragionevoli risposte, che anche gli Stati dovrebbero adottare, a un problema che interpella anche la qualità di quelle democrazie costituzionali basate sulla tutela dei diritti umani a cui il nostro continente è approdato avendo alle spalle tragedie del tutto simili a quelle che oggi costringono uomini donne alla fuga, che partono perché non hanno altra prospettiva se non quella di soccombere: anche l’Europa è stata insanguinata da guerre, anche “di religione”, dall’intolleranza e da dittature, anche l’Europa ha avuto milioni e milioni di migranti in cerca di un futuro migliore. Se guardassimo al nostro passato, anche recente, forse ci apparirebbe chiaro ciò che dice un’altra parola della Bibbia:” tu conosci l’animo dell’immigrato” (Esodo 23,9). Oggi ci rallegriamo con voi; per il resto, continuiamo a fare la nostra parte per chi ancora è nel pianto.
Mattia, testimone di accoglienza nelle Marche
Santo Padre, mi chiamo Mattia, vengo dalle Marche. Sono emozionato di rappresentare, davanti a lei, una comunità di famiglie che non hanno avuto timore ad aprire le loro porte e alla fine si sono ritrovate con tanti nuovi parenti, venuti da lontano, oggi non più stranieri. Per la mia famiglia tutto comincia nel 2018, quando mio suocero Lamberto, capofila di un gruppo di volontari, ci lascia in eredità l’accompagnamento di una famiglia siriana, arrivata con uno dei primi corridoi umanitari: papà, mamma e due figli piccoli, fuggiti dalle bombe e dalla distruzione di Homs. “Pensate, i vostri figli, Bianca Maria e Francesco, avranno la possibilità di confrontarsi con bambini di un’altra cultura!”, ci diceva con fierezza Lamberto all’indomani del loro arrivo in Italia. “Avete perso un padre, ma avete trovato due fratelli”, così ci hanno detto Anton e Nadine al funerale di Lamberto, scomparso appena quaranta giorni dopo il loro arrivo. Due fratelli in più, quindi, la scoperta della Comunità di Sant’Egidio, e una piccola rivoluzione che cominciava nelle Marche, nella piccola Castelfidardo, con altre famiglie e compagni di viaggio straordinari: Dariana, Paolo, Alessandro e Barbara, solo per citare alcuni tra i presenti. Con loro ci siamo organizzati per provvedere a tutto: chi alla scuola per Mousa e Yana, chi alle visite mediche, chi ai documenti, alla ricerca della casa, al lavoro, che da noi non manca.
Certo, soprattutto all’inizio, anche alcune incomprensioni, come capita in tutte le famiglie, dovute non solo alle differenze culturali, ma soprattutto a ferite interiori profonde, alla difficoltà di riacquistare fiducia negli altri: “In guerra non sai più di chi ti puoi fidare”, ci hanno ripetuto più volte. Solo ora, dopo che una guerra, quella in Ucraina, mina la pace in Europa, sono riuscito a carpire il vero significato di quelle parole. Sì, perché creare ponti significa anche mettersi in discussione. Nulla avviene per caso. Nel pieno del lockdown, la Provvidenza ha voluto che la nostra esperienza si incontrasse con quella di nuovi amici delle Marche, che a Macerata e Civitanova, hanno voluto ripetere la nostra esperienza. Così, come un contagio positivo, da quel primo corridoio ne sono nati altri due. Ecco perché oggi la nostra non è più una semplice esperienza. Siamo convinti che sia molto di più: i corridoi umanitari sono una via sicura per salvare vite umane e sono un grande dono per questa nostra Europa, spesso invecchiata e rassegnata. Il nostro augurio è di vedere esteso questo modello a tutto il continente. Siamo qui a testimoniare proprio questo e credo che le mie parole valgano anche per tutti coloro, tanti, che hanno ospitato in Italia e in Europa: dall’accoglienza e dall’integrazione può nascere una società culturalmente ed umanamente arricchita. Un mondo cambiato. È davvero, Padre Santo, vivere “Fratelli tutti”. Per questo la ringrazio, per aver dato voce oggi a chi accoglie e a chi viene accolto, e per le sue parole che risvegliano ogni giorno le nostre coscienze.
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