Il vescovo Székely: dal Papa l'invito a coniugare la difesa dei valori con la carità
Andrea De Angelis - Budapest
Un primo bilancio del 41.mo viaggio apostolico di Papa Francesco lo traccia monsignor János Székely, vescovo di Szombathely, nello studio di Radio Vaticana - Vatican News allestito a Budapest. Viene a trovarci dopo l'incontro del Papa con i poveri e i rifugiati, al quale ha partecipato. Lui, responsabile della pastorale per i rom e presidente della commissione Caritas in Veritate, traccia le linee da seguire per rendere concreti gli inviti del Papa. Carità, accoglienza, educazione, famiglia sono alcune delle parole centrali per il futuro del popolo ungherese.
Monsignor Székely, quali sono le sue impressioni e i suoi sentimenti dopo queste prime giornate di viaggio del Papa?
Penso che tutta l'Ungheria è molto toccata dal fatto che il Santo Padre sia venuto per la seconda volta qui, in Ungheria, e se consideriamo anche l'incontro avuto in Romania con molti pellegrini, allora è già la terza volta che incontra il nostro popolo. Siamo molto grati e sentiamo che il Santo Padre ha un una visione forse un po' diversa rispetto a quella di altri sulla nostra storia e sulla nostra mentalità. Lui ha conosciuto diverse suore ungheresi a Buenos Aires, le menziona spesso, erano membri della Congregazione Maria Verde. In Argentina avevano una scuola eccellente. Il Papa era sempre molto impressionato dai loro talenti, dalla forte personalità e da quel lavoro immenso che hanno saputo fare. Oggi, tornando al mio Paese, l'Ungheria cerca di lottare, diciamo così, per la verità, per la famiglia, per quei valori cristiani che vuole difendere. Lo stesso vale per la lingua, per la cultura. C'è una forte volontà di voler custodire i nostri valori. Il Santo Padre ci dice che questi valori sono importanti. Ammira anche questa mentalità che definirei forte, venerdì ai sacerdoti ha detto che gli ungheresi hanno una fede granitica. Ha ricevuto un applauso grande per questo, forse perchè la nostra storia è stata molto difficile e a volte tragica. Oggi Francesco ci invita a coniugare, a mettere insieme questa mentalità di difesa di valori e di verità con la carità, con la tenerezza, con la bontà. Ci chiede cioè di non dimenticare mai di tendere la mano a chi ne ha bisogno. Verità, ma nella carità.
Lei è presidente della commissione Caritas in veritate. In quella enciclica Benedetto XVI mise in guardia anche dai nazionalismi, proprio in uno degli ultimi capitoli. Ieri Francesco ha parlato alle autorità e nuovamente ha posto l'attenzione sul rischio di nuovi nazionalismi. Lei ha ben spiegato come la storia dell'Ungheria porti a questa difesa, a questo timore, ma i nazionalismi sono un'altra cosa. La fede può aiutare a distinguere queste due strade?
Il Papa nel suo primo discorso ci ha invitato a riscoprire l'anima europea, ad imparare dai grandi fondatori dell'Unione. De Gasperi, Schuman Adenauer, che non volevano creare una mera unità economica, ma una qualcosa di molto più profondo, basato sui valori e soprattutto sui valori cristiani. Il Santo Padre ha sottolineato anche che l'unità non deve mai diventare una uniformità, ma deve rispettare le diversità, le identità dei singoli Paesi. Ancora ha parlato di alcuni valori fondamentali come famiglia, ha menzionato l'ideologia gender che nega ogni differenza fra uomo e donna, o almeno oscura queste identità. Quindi ha definito l'aborto una una sconfitta tragica dell'umanesimo. Ora noi siamo chiamati a difendere questi valori connettendoli alla carità, all'amore. Uno dei valori più importanti del cristianesimo è appunto l'amore, la misericordia, l'essere accanto ai poveri. L'Ungheria cerca di fare questo, per esempio aiutando i cristiani perseguitati in Medio Oriente, in Libano, in Siria. Francesco ha criticato la chiusura troppo rigida, la difesa fisica delle frontiere che non permette l'ingresso neanche a quelle persone che ne avrebbero veramente bisogno, che hanno diritto a trovare una nuova casa. Penso che l'Ungheria dovrebbe imparare a creare porte aperte su questa rete difensiva, creare porte per quelle persone che veramente fuggono a causa dei problemi climatici, delle guerre e della povertà estrema. Dobbiamo aprire il nostro cuore, altrimenti perdiamo quel cuore tipico ungherese che storicamente è sempre stato molto benevolo, già con Santo Stefano.
A Budapest i ponti sono dei simboli e il Pontefice è per definizione un costruttore di ponti, non certo di muri. Quanto è importante costruire ponti con chi, penso alla comunità Rom, talvolta ci sembra molto diverso. Persone vittime spesso di stereotipi. Come si fa però a costruire davvero qualcosa di virtuoso, la Chiesa in che modo dà il suo contributo?
La presenza dei Rom in Ungheria è una sfida molto grande, sono più o meno l'8% di tutta la popolazione. I rom sono qui da circa sei secoli, possiamo imparare tanto dai loro valori, possono arricchire la cultura ungherese. Hanno una predilezione molto forte per la famiglia. I figli hanno un senso di gioia e di festa, possiedono una fede molto forte. Quasi in ogni casa dei rom troviamo immagini sacre e ogni sera pregano tutti insieme in famiglia. La Chiesa ungherese cerca di aiutare soprattutto i bambini. Abbiamo aperto 91 "case aperte", dove ogni pomeriggio si ritrovano centinaia di ragazzi. Ci sono gruppi sportivi e gruppi di canto, ma soprattutto in questi luoghi si studia. Gli zingari in genere non amano la scuola. In questi luoghi però non si sento più scartati, ma amati. Sono vere case e così imparano in fretta, con facilità. Lo Stato ha anche aperto collegi universitari per gli studenti Rom, al punto che sono circa il 3% delle matricole. Credo una percentuale unica in tutta l'Unione Europea. Anche attraverso dei pellegrinaggi, degli eventi cerchiamo di costruire ponti tra i rom e la restante popolazione. Questo genera a volte anche meraviglia, la contaminazione avviene nei fatti e si dimostra che è possibile vivere insieme.
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