Francesco: la Parola di Dio ci parla ancora con le sue domande
Papa Francesco
Gesù faceva domande. Una delle sue prime frasi, secondo il vangelo di Giovanni, è stato l’interrogativo «Che cercate?» rivolto ai due discepoli del Battista che lo seguivano. In base all’evangelista Luca, la prima parola di Gesù era stata proprio una domanda ai suoi genitori, Giuseppe e Maria: «Perché mi cercavate?». E sulla croce, al termine della sua vita terrena spesa ad annunciare la tenerezza di Dio, si è rivolto al Padre con un quesito: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Nondimeno, risorto dai morti, si è presentato a Maria Maddalena con un doppio, diretto interrogativo: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?».
Gesù amava fare domande. Perché amava dialogare con gli uomini e le donne del suo tempo che si affollavano intorno a questo strano rabbi che parlava di Dio e di semine, del Regno di Dio e di tesori nel campo, di re che vanno in guerra e di banchetti ricchi di vivande. Quanti ascoltavano Gesù capivano che il suo interloquire non era una messa in scena retorica, ma un appello al proprio cuore, un modo per interpellare l’interiorità di ciascuno. Un tentativo di bucare la scorza dell’io per farvi filtrare il balsamo dell’amore.
Questo libro, per il quale ringrazio gli autori, prende in esame diciotto tra le varie domande che Dio pone all’uomo e alla donna nella Bibbia, e che vari personaggi rivolgono a Dio e a Gesù. La domanda è un gesto umano, umanissimo: fa trasparire il desiderio di conoscere, di sapere, l’indole di ciascuno di noi di non accontentarsi dell’esistente, ma di andare oltre, di raggiungere qualcosa, di andare in profondità su un argomento. Chi fa domande non si accontenta. Chi pone questioni è animato da un’inquietudine che brilla come sintomo di vitalità.
I cuori adagiati non fanno domande. Chi ha risposte su tutto non si pone in questione su niente. Pensa di avere in tasca la verità come si tiene in tasca una penna, pronta all’uso. Il beato Pierre Claverie, vescovo in Algeria, domenicano come gli autori di questo testo, martire dell’amicizia e del dialogo con i nostri fratelli musulmani, amava ripetere: «Io sono credente, credo che Dio c’è. Ma non pretendo di possederlo, né tramite Gesù, che me lo rivela, né tramite i dogmi della mia fede. Dio non lo si possiede. La verità non la si possiede».
Ecco, questa ricerca, questo desiderio, questo anelito si concretizzano nel fare domande, nell’avere domande, nell’ascoltare le domande degli altri. Lo sappiamo bene: la filosofia è nata dai grandi interrogativi dell’esistenza: «Chi sono io?», «Perché c’è qualcosa e non il nulla?», «Da dove vengo?», «Verso dove va la mia vita?». È per questo motivo che il cristianesimo si è sempre posto vicino a chi si interroga, perché – ne sono convinto – Dio ama le domande, le ama davvero. Penso che ami più le domande delle risposte. Perché le risposte sono chiuse, le domande rimangono aperte. Così come Dio – ha scritto un poeta – è una virgola, non un punto fermo: la virgola rimanda a qualcosa in più, manda avanti il discorso, lascia aperta la possibilità di comunicazione. Il punto chiude il discorso, mette un termine alla discussione, ferma il dialogo. Sì, Dio è una virgola. E ama le domande.
Questo libro ci educa all’importanza di vagliare le nostre domande. Quelle della Bibbia sono bellissime, provocatorie e ci inquietano. Dio chiede ad Adamo: «Dove sei?». L’Altissimo interroga Caino: «Dov’è tuo fratello?». Maria domanda all’angelo: «Come avverrà?». Gesù interpella i suoi: «Chi dite che io sia?». E infine provoca Pietro: «Mi ami più di costoro?». Ecco, fare domande significa rimanere aperti ad accogliere qualcosa che ci può trascendere. Dare solo risposte vuol dire restare ancorati alla propria visione delle cose.
I quesiti che gli autori indagano tra le pagine della Scrittura ci trasmettono anche un altro insegnamento: la qualità e la sincerità del nostro domandare. C’è chi fa domande per mettere in difficoltà l’interlocutore e chi invece, come un bambino che si rivolge ai suoi genitori, si pone sinceramente in ascolto dell’interlocutore, sapendo di non sapere. A volte interroghiamo le persone con maldicenza, cercando di mettere l’interlocutore in pericolo – se risponde in un modo, ne va della sua reputazione, se risponde in un altro si tradisce. Ecco perché gli autori vagliano anche alcune domande della Bibbia che non sono sincere come ogni domanda dovrebbe essere.
La Parola di Dio è su questo una grande maestra, perché – come afferma san Paolo – è una lama a doppio taglio e svela la verità del cuore. E mentre ci svela il nostro intimo, la Parola si dimostra capace di essere attuale, sempre: Dio, nella Bibbia, non parla e non comunica solo agli uomini e alle donne del tempo in cui essa è stata scritta, ma parla a tutti, anche a noi. Parla al nostro cuore inquieto, se sappiamo ascoltarlo. I quesiti che gli autori analizzano e su cui discutono sono attuali ancor oggi, ci scuotono nel profondo anche nella nostra società digitalizzata, perché sono le parole che ogni cuore non anestetizzato sa cogliere come decisive per la propria vita: a che punto sono del mio vivere? Cosa ne ho fatto dei miei fratelli e sorelle in umanità? Come può succedere che Dio entri nella mia vita? Per me, chi è Gesù? Di quell’uomo che si diceva Dio e che ha dato la sua vita per me, a me cosa importa?
La Parola di Dio ci parla ancora con le sue domande. Ma non è la sola. Come questo libro ben dimostra, ogni parola umana, autenticamente umana, è intrisa di parola divina. Karl Rahner scriveva che «l’autore in quanto tale è sotto l’influsso della chiamata della grazia di Cristo e deve quindi essere un cristiano; l’essere autore per un uomo è un fatto cristianamente rilevante». Le pagine di questo libro lo attestano: la sua ricchezza di riferimenti letterari, poetici, cinematografici rimanda a un’abbondanza espressiva che arricchisce il nostro sguardo sulla fede. Essi ci fanno capire meglio l’affermazione del teologo tedesco: quando è veramente umana, quando è espressione dell’interiorità autentica dell’essere umano, l’espressione artistica diventa teofanica, perché sa cogliere l’essenziale, sa dare voce alla grazia, è capace di comunicare il mistero. Come davanti a una notte stellata o a un tramonto, il nostro cuore non può non rendere lode a Dio, così davanti a una sonata di Bach o a una pagina di Dostoevskij diveniamo certi che il mondo è buono e che la nostra vita ha un senso. Questo è il potere dell’immaginazione umana: metterci in comunicazione con il divino.
Infine, un’annotazione. Il presente libro è intriso di umorismo. Credo che sia un elemento importante e di cui essere doppiamente grati agli autori. In primo luogo, perché l’umorismo è un’espressione umana che si avvicina moltissimo alla grazia. L’umorismo è leggerezza, è soave, rallegra l’anima e ci offre una speranza. Chi ha humour difficilmente non ama gli altri, è probabile sia generoso, è capace di relativizzare sé stesso – qualcuno, con arguzia, ha scritto: «Beati coloro che sanno ridere di sé stessi, perché non finiranno mai di divertirsi». E al contempo l’umorismo, quando è vissuto dal credente, mostra come la fede cristiana non sia qualcosa di lugubre o pedante, non è retrò, né avvilente. La fede fa brillare il volto di chi vi aderisce. Il Vangelo dà gioia, la gioia vera, non quella effimera certo, ma vera gioia sul serio: chi crede è contento, non ha la faccia da funerale. È una persona lieta, glielo si legge in faccia!
Da questo libro, dunque, sento riecheggiare tre appelli: che noi credenti restiamo inquieti, sempre capaci di porci domande e anche un po’ esperti nell’umorismo.
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