Premio Ratzinger, arch. Botta: “L’architettura è ricerca di infinito”
Antonella Palermo - Città del Vaticano
Alla base della progettazione architettonica di Mario Botta c’è sempre stata la ricerca di infinito. Pur avendo lavorato in molte tipologie edilizie (abitazioni, scuole, biblioteche, musei, banche), ha infatti realizzato diversi importanti edifici di culto, tra cui la Chiesa di San Giovanni Battista a Mogno, la Cattedrale di Evry, presso Parigi, la Concattedrale del Santo Volto a Torino. E’ autore di una delle dieci cappelle esposte nel padiglione della Santa Sede nell’Isola di San Giorgio, alla Biennale di architettura in corso a Venezia, dove peraltro sarà ospite domani, per iniziativa del Dicastero vaticano per la Cultura, per l’incontro “Geometrie dello Spirito. Un viaggio tra architettura, cultura e musica”.
L'importanza degli spazi del sacro
Ai microfoni di Radio Vaticana Italia, l'architetto Botta racconta qual è stata la sua prima reazione alla notizia del premio:
R. - La prima reazione di fronte a questo riconoscimento è stata ovviamente quella di sorpresa. Il fatto curioso è che all’interno di una società secolarizzata, emerge una ricerca, uno studio, un’architettura che trova nello spazio del sacro la sua ragione più profonda, la sua ragione prima. Vuol dire che non è per niente marginale il tema, ovvero la tipologia dello spazio di silenzio, di preghiera, di meditazione che rappresentano i luoghi di culto. Il Premio dimostra che essi sono oggetto di attenzione persino del Papa. Attraverso la geometria che caratterizza la base di questa mia ricerca, di questa mia composizione architettonica, ecco che ritroviamo gli elementi propri della cultura architettonica che per quanto mi riguarda è una cultura ecclesiale. La mia formazione è tutta ecclesiale.
In che senso, architetto?
R. - Se tolgo le tipologie ecclesiali nella storia dell’architettura resta ben poco; qualche castello, qualche palazzo civile, ma meno significativo – certamente - di tutto il corpus edilizio legato ai luoghi di culto che dal romanico o ancora dal primitivo fino al Rinascimento, al Barocco, all’800, al 900, fino a Rudolf Schwarz e al sodalizio straordinario con Guardini, hanno caratterizzato questi particolari spazi che ancora oggi – qui risiede il grande significato di questo premio - però sono elementi di grande bellezza metaforica all’interno della civiltà contemporanea.
De resto, lei ha sempre dichiarato che alla base del progettare architettonico c’è la ricerca primordiale dell’infinto…
R. - Sì. L’architettura porta con sé l’idea del sacro. Il primo gesto architettonico è quello di determinare un perimento, un contorno, un limite e questo fa parte dell’idea stessa dell’ecclesia che separa un interno dal grande macrocosmo esterno. È un recupero dei valori primordiali del fatto architettonico stesso, dell’idea di gravità, della luce come generatrice dello spazio, dell’idea della soglia come separazione tra un interno ed un esterno.
Dobbiamo dire però che ci sono anche esempi che talvolta prendono altre direzioni, che non tengono conto di questi elementi basilari…
R. – E’ vero quello che lei dice. Credo che l’architettura abbia dato il meglio, ma anche il peggio nella sua espressione contemporanea proprio attraverso gli spazi di culto. Le istituzioni preposte al silenzio, alla preghiera, alla meditazione talvolta hanno avuto delle immagini abnormi che non hanno nulla a che vedere con la ricerca della bellezza. Ritengo che questo – forse – sia dovuto un po’ a degli sbalzamenti ideologici; basti pensare agli approcci post-sessantottini, dove si teorizzava persino che la miglior chiesa era quella nei garage o nelle grandi fabbriche, nelle grandi strutture dismesse, come se il sacro potesse trovare espressione non importa dove. C’è tutta questa cultura post-sessantottina che deve essere rivista. Credo che sia stato un bene tentare di resistere a questa finta democratizzazione dello spazio di culto.
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