Una Chiesa umile che si lascia ferire
Andrea Tornielli
“Sentire con la Chiesa” era il motto episcopale di sant’Oscar Arnulfo Romero, l’arcivescovo di San Salvador martirizzato dagli Squadroni della morte mentre celebrava sull’altare. Ed è il filo rosso dell’articolato discorso che Papa Francesco ha tenuto ai vescovi centroamericani nella chiesa S. Francisco de Asìs a Ciudad de Panama, nella sua prima giornata di impegni pubblici del viaggio per la GMG 2019.
Ancora una volta il Papa ha tracciato una sorta di identikit del pastore, offrendo chiavi per leggere la situazione attuale della Chiesa.
Francesco ha sottolineato innanzitutto che “sentire con la Chiesa” significa sperimentare di aver ricevuto un dono totalmente gratuito, che “non ci appartiene” e che ci libera da ogni pretesa e tentazione “di crederci suoi proprietari o gli unici interpreti”. In un’epoca in cui molti messaggi si riducono a slogan, e dove accuse e pregiudizi corrono sul web, ricordare - come fa il Papa - che “non abbiamo inventato la Chiesa, non è nata con noi e andrà avanti senza di noi” aiuta a scendere dai piedistalli dell’autosufficienza, dell’iperattivismo, del funzionalismo e delle logiche aziendalistiche e manageriali. Per ricordare, con sant’Ambrogio, che la Chiesa, come la luna, non potrà mai brillare di luce propria, ma soltanto riflettere quella di Cristo.
Per Romero, ha spiegato ancora Francesco, “sentire con la Chiesa” consiste nel portare nel proprio intimo tutta la kènosis di Cristo. La kènosis, cioè lo “svuotamento” che il Figlio di Dio ha fatto di sé stesso con l’incarnazione e la morte in croce. È importante, ha detto il Papa, “che non abbiamo paura di accostare e toccare le ferite della nostra gente, che sono anche le nostre ferite, e questo farlo nello stile del Signore. Il pastore non può stare lontano dalla sofferenza del suo popolo; anzi potremmo dire che il cuore del pastore si misura dalla sua capacità di commuoversi di fronte a tante vite ferite e minacciate”. Questo era lo stile di Romero, questa è l’indicazione che Francesco dà oggi ai vescovi chiedendo loro di testimoniare una Chiesa umile e povera, fuggendo il rischio dell’orgoglio, dell’arroganza, dell’autosufficienza. Questo è, in fondo, anche il modo più autentico di accostarsi al prossimo meeting per la protezione dei minori in Vaticano con i presidenti delle Conferenze episcopali del mondo, che sarà fortemente caratterizzato proprio dall’ascolto delle vittime sopravvissute agli abusi e dunque delle loro ferite dalle quali lasciarci a nostra volta ferire.
Ma il Papa, nel suo discorso, ha voluto anche sottolineare che la kènosis di Cristo “esige di abbandonare la virtualità dell’esistenza e dei discorsi per ascoltare il rumore e il richiamo costante di persone reali che ci provocano a creare legami”. Perché le reti “servono a creare contatti ma non radici, non sono in grado di darci appartenenza, di farci sentire parte di uno stesso popolo”. Un accenno ai mondi virtuali e alle bolle autoreferenziali che spesso si creano. L’antidoto a questo rischio è contenuto nella frase di san Paolo “Siamo membra gli uni degli altri”, significativamente scelta per il titolo del Messaggio di Francesco per la 53.ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, che invita a riflettere sull’identità cristiana fondata sulla comunione per passare “Dalle social network communities alla comunità umana”.
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