Protezione minori, Zollner: un incontro per ridare credibilità alla Chiesa
In questa lunga intervista a Vatican News, in vista dell’ormai imminente incontro “La protezione dei minori nella Chiesa”, in programma in Vaticano dal 21 al 24 febbraio, il padre gesuita Hans Zollner, referente del Comitato organizzatore, spiega che gli obbiettivi del summit sono “costruire fiducia” e “motivare la presa di coscienza che la tutela dei bambini e dei giovani è un compito comune”. Sottolinea come l’incontro, a cui sono stati invitati i presidenti della Conferenze episcopali di tutto il mondo, non è né l’inizio né la fine dell’impegno della Chiesa in questo campo e spiega come tra i relatori ci saranno donne e uomini, chierici e laici. Un questionario è stato poi inviato a tutti gli invitati per definire lo stato delle cose riguardo al trattamento del fenomeno-abusi, mentre, in occasione dell’incontro sul web ci sarà uno spazio aperto a tutti i partecipanti. “Oltre alle necessarie misure immediate – sottolinea Zollner - serve un cambiamento profondo di sensibilità”.
Padre Zollner, mancano poche settimane all’Incontro dei vescovi. Come si sente?
R. – Molto bene - anche se adesso stanno arrivando tante cose tutte insieme. La collaborazione all’interno del Gruppo preparatorio e anche la collaborazione con gli uffici competenti della Curia romana funziona senza intoppi. Tutti si impegnano molto in questa istanza della tutela dei minori e tutti insieme ci arrovelliamo per capire quale sia il modo migliore per metterla in pratica. Stiamo vivendo in maniera intensa cosa significa far parte della Chiesa universale nella quale le più diverse culture, mentalità, abitudini e modi di pensare non solo devono trovare la via per andare d’accordo, in un modo o nell’altro, ma devono realizzare fra loro reciproco supporto e collaborazione. In questo è insita una grande sfida. Dobbiamo essere molto attenti affinché non accada che parliamo della stessa cosa mentre in definitiva intendiamo cose diverse. Un concetto diverso di infanzia, modi diversi di comprendere l’autorità o anche l’accezione diversa del significato di intimità e della definizione dei suoi limiti sono spesso non chiariti e non espressi, eppure hanno un loro peso. Affermare frettolosamente che “tanto è tutto chiaro” sarebbe un errore; inoltre, tutte le misure, per quanto guidate dalle migliori intenzioni e adottate energicamente, cadrebbero nel vuoto senza persistenza.
Come si fa, allora, a portare tutti su un denominatore comune? Non ci sono, alla fine, troppe differenze in questa unica Chiesa universale?
R. – La domanda e il timore ad essa legato sono ovviamente giustificati. Ma, dall’altro lato, se rinunciassimo a cercare vie comuni e comprensione reciproca, cosa rimarrebbe della Chiesa una, cattolica e apostolica? Non significherebbe allora anche che non è possibile credere insieme, rivolgersi insieme al Padre celeste? Il corpo di Cristo, composto da diverse membra, si disgregherebbe. Da un punto di vista teologico, sarebbe una dichiarazione di fallimento, sarebbe anche un modo profano di respingere lo Spirito Santo, nel quale tutti siamo uniti. Non abbiamo altra scelta che affrontare le difficoltà che nascono dalla comunicazione e dalla collaborazione interculturali con le quali ogni organizzazione sovrannazionale dei nostri tempi deve confrontarsi. Ma nel nostro caso – noi che siamo una Chiesa – non si tratta soltanto di una questione pratica per cui sarebbe utile, per l’effettività e l’efficienza, che in qualche modo si andasse d’accordo. In ambito ecclesiale il punto è la comprensione di sé, della propria natura. Anche se in passato magari abbiamo dato poca importanza al tema dell’interculturalità, questo non ci esime dal dovere di trattarlo, oggi, invece, nella maniera dovuta.
Ma non sarebbe più facile, allora, “battere i pugni sul tavolo” per ottenere il più rapidamente possibile dei risultati, soprattutto in considerazione del fatto che stiamo parlando della tutela dei bambini e dei giovani?
R. – Certo, si potrebbe fare così – e certamente si dovrà fare anche così. Ma se il metodo si dovesse limitare solo a questo, probabilmente a lungo termine non otterremo niente. Mi permetta di fare questo esempio. Un malato grave ha bisogno dell’intervento immediato e deciso del medico d’emergenza. Lunghe disquisizioni sulla misura che potrebbe essere la più indicata, quali reazioni possa provocare più avanti, chi altro dovrebbe essere consultato prima di prendere una decisione potrebbero essere pericolosissime, metterne in pericolo la vita. Ma è anche chiaro che il medico d’emergenza, con il suo agire appropriato, non sarà in grado di guarire il malato: per fare questo servirà comunque il ricovero in ospedale, la riabilitazione, il progressivo reinserimento nella quotidianità. In maniera simile dovremo procedere con l’elaborazione di quella crisi profonda nella quale si trova la Chiesa a causa degli abusi e di tutto quello che ha a che fare con questo fenomeno. Le misure immediate come l’allontanamento degli autori dai loro incarichi, la dimissione dallo stato clericale, l’adozione di linee-guida sono imperative. Però serve anche dell’altro, qualcosa che vada più in profondità, qualcosa che porti al cambiamento di atteggiamenti e impostazioni e che rafforzi la sensibilità nei riguardi delle persone vittime di abuso sessuale e delle loro necessità. Si possono elaborare le normative, in maniera formale e senza partecipazione interiore e reale comprensione; si potrà magari anche delegare la vigilanza sul rispetto delle stesse; ma tutto questo, dopo un’emozione iniziale, si dissolverà nella nebbia della disattenzione e della trascuratezza. Questo non può volerlo nessuno, e se è vero questo, allora serve anche la disponibilità a veri processi di formazione che siano in grado di cambiare realmente le persone – nel nostro caso soprattutto i responsabili ecclesiali. E questo non funziona dall’oggi al domani.
Quindi, secondo lei, serve tanta comunicazione, tanto scambio e tanta discussione. E allora non si genera il pericolo che tutto si limiti alle parole? Lei capisce che in molti ne sarebbero veramente tanto delusi?
R. – Certo che lo capisco. Ancora di più se penso all’annoso se non decennale tentativo da parte della Chiesa di soprassedere, coprire o, ancor peggio, nascondere le cose. La preoccupazione che la Chiesa possa tornare – non più solo tacendo ma quasi al contrario – con tante parole a coprire i problemi piuttosto che elaborarli realmente, è comprensibile. Se tutto finisse in chiacchiere, la Chiesa si sarebbe giocata la credibilità alla quale è legato il suo ministero dell’annuncio. Annunciare la fede senza essere credibili, non funziona. Ma nonostante tutti i timori, è necessario riflettere su una cosa. L’Incontro di febbraio non è né l’inizio né la fine dell’impegno della Chiesa per la tutela dei bambini e di giovani. Spero tanto – e parto da questo presupposto – che dopo questo Incontro si relazioni regolarmente e continuativamente in merito ai progressi fatti riguardo a quanto ragionato e deciso a febbraio, che per la messa in pratica ha ancora bisogno di una tabella di marcia ben stabilita. La trasparenza, infatti, non è necessaria solamente nell’elaborazione di singoli casi di abuso ma anche nei riguardi delle misure per avere la garanzia della qualità per quanto riguarda la prevenzione e l’elaborazione come tali.
C’è solo un problema: la pazienza della gente non è infinita. A questo si aggiunge che ogni tanto scoppia un nuovo caso e si ha così l’impressione che non se ne uscirà mai…
R. – Per quanto posso suonare duro, in realtà è un bene che i casi di abuso vengano fuori perché questo significa che non si nasconde niente, si fa fronte agli eventi nel proprio ambito di responsabilità, le persone colpite trovano ascolto e hanno voce. Il fatto stesso che ci siano persone colpite dagli abusi nell’ambito della Chiesa è estremamente amaro. Tuttavia, nonostante tutti gli sforzi che possiamo fare, non riusciremo a evitarlo al 100 per 100 perché non possiamo guardare dentro alle persone e capire cosa le muove, né possiamo guidare e governare il loro comportamento al 100 per 100. Questa consapevolezza, però, non ci deve scoraggiare, al contrario: deve guidarci nel nostro agire. Di questo fa parte essere pronti a fare il possibile per evitare gli abusi e, qualora avvenissero, elaborarli. Un provvedimento o un determinato tipo di provvedimento, magari anche solo
A proposito di tempo: il tempo per la preparazione dell’Incontro di febbraio non è stato tanto …
R. – Diciamola così: da un punto di vista puramente “mondano”, questa per la Chiesa è un’ottima occasione quantomeno per esercitarsi a gestire una “campagna”, e a dimostrare che in quanto a comunicazione, disponibilità all’azione e agilità fa concorrenza, o piuttosto, viaggia alla pari con il mondo moderno. Da un punto divista ecclesiale la velocità non deve significare la rinuncia alla qualità, tanto meno quando la questione in ballo è già stata trattata in luoghi diversi e da diversi autori in maniera competente. A questo si aggiunge che il “format” scelto per l’Incontro di febbraio è quello giusto per affrontare un problema urgente in vista delle sue “viti di regolazione” e dare inizio alle rispettive strategie risolutive, possibilmente a tutto campo. L’Incontro di febbraio non pretende di essere la soluzione definitiva di tutti i problemi e nemmeno potrebbe mai esserlo. Dovrebbe però certamente essere un’importante pietra miliare su una tabella di marcia chiara con il suo programma di lavoro.
Cioè? Cosa significa, precisamente? Di che si tratta concretamente, a febbraio?
R. – Il contenuto del lavoro è spalmato su tre giornate e ciascuna giornata è governata da un argomento che deve essere particolarmente interessante per i responsabili ecclesiali, secondo le caratteristiche del loro contesto di azione. Considerando i punti nodali per affrontare il fenomeno-abusi, i temi saranno: in primis, “responsabilità/accountability – l’essere resi responsabili”, poi il tema del dovere di rendere conto e poi ancora il tema della trasparenza. Ogni giornata prevede tre relazioni che affrontano il tema del giorno dal punto di vista 1), del singolo vescovo, dei suoi compiti e dei suoi atteggiamenti personali; 2), della comunità dei vescovi e della loro solidarietà e 3), di tutta la comunità ecclesiale in quanto popolo di Dio. Nella scelta dei relatori abbiamo dato molta attenzione alla diversità. In questo senso ci siamo impegnati a coinvolgere donne e uomini, chierici e laici, rappresentanti di diversi continenti ma anche di diverse competenze lavorative. Gli stessi partecipanti all’evento di febbraio hanno la possibilità di approfondire e discutere quanto ascoltato in gruppi di lavori con un moderatore, e di presentare proposte concrete per il prosieguo. Il Santo Padre, che sarà presente all’intero evento, riassumerà – alla fine dell’Incontro – quanto detto ed elaborato.
All’incontro parteciperanno persone vittime di abusi?
R. – Sì, perché è importante che le vittime stesse possano avere voce e che non ci si limiti a parlare di loro. Questo ha lo scopo di riconoscere alle vittime quel rispetto e quella stima e considerazione che troppo a lungo e troppo spesso sono stati loro negati da parte della Chiesa. Con lo stesso scopo, il Santo Padre ha chiesto anche a tutti i partecipanti all’Incontro di febbraio di fare quello che non sarà possibile fare in quella stessa occasione, per mancanza di tempo e di spazio: prendere contatto con le vittime degli abusi nei loro rispettivi ambiti di responsabilità, incontrarle personalmente e parlare con loro a livello paritario e lasciarsi toccare dalle loro esperienze. Poi, per ulteriore presa di coscienza di questi incontri e delle esperienze e dei risultati da questi derivanti, le vittime degli abusi testimonieranno in diversi modi della loro vita nei momenti di preghiera che si terranno due volte al giorno: dalla parola al videomessaggio a testimonianze riferite, fino alla creazione artistica.
Da che cosa lei e l’opinione pubblica potrete capire che l’Incontro di febbraio è stato un successo?
R. – Detto in senso figurato: vorrei che si capisse che la slavina ha iniziato a rotolare e non la si può più fermare. In termini concreti voglio dire che quello che sarà trattato a Roma prenderà, attraverso i partecipanti all’incontro, la strada delle Chiese locali, dove avrà effetti quantificabili; i partecipanti prenderanno coscienza delle loro responsabilità di guida in questo ambito; che è stata fatta chiarezza su determinati strumenti necessari che però poi devono anche essere utilizzati; che in vista di un trattamento adeguato del fenomeno-abusi gli ostacoli finora esistenti devono essere chiaramente riconosciuti, chiamati per nome e, secondo una tabella di marcia possibilmente ben definita, eliminati; che tutti tornino a casa incoraggiati per affrontare la realtà in maniera attiva e senza timore, ma soprattutto che da tutte le parti sia manifesta la disponibilità affinché questo Incontro di febbraio non sia l’ultimo di questo genere, per potere scambiare le esperienze sull’evoluzione e sui passi da fare in futuro e impegnarsi formalmente in tal senso. Mi rendo conto che non pochi diranno: certo, è un magro risultato. In molti avranno aspettative fin troppo alte nei confronti di questo Incontro. In realtà è faticoso per tutti essere, in qualche modo, “condannati” al successo; al contempo è consolante e incoraggiante avere ben chiaro che le aspettative relative al successo dell’evento di febbraio rappresentano in realtà quel resto di speranza e di aspettativa positiva nella Chiesa di chi ancora crede di lei. E credere in qualcuno è già un passo verso la fiducia. Se il “credere in” dovesse crescere, sarebbe un successo importante o, per meglio dire, già una parte di guarigione per coloro che la Chiesa ha deluso, ferito, privato dei diritti e fatto ammalare a causa del suo comportamento.
Naturalmente, la fiducia nella Chiesa dipenderà anche dal fatto che arrivi il segnale chiaro che all’interno della Chiesa stessa ci sia unità di intenti riguardo alla necessità urgente di azioni nell’ambito degli abusi. Si sa già quanti degli invitati parteciperanno?
R. – Il processo di adesione è ancora in corso ma possiamo già dire che la maggior parte degli invitati ha confermato la partecipazione. Oltre ai presidenti delle singole Conferenze episcopali nazionali ci saranno anche i capi delle Chiese Orientali, superiore e superiori generali degli Ordini religiosi, amministratori apostolici nonché cardinali della Curia romana. Già da questo elenco si può riconoscere che la Chiesa non è quel blocco monolitico erratico che si crede. La struttura di governo nella Chiesa cattolica è molto diversificata, e questo a causa dell’evoluzione storica e delle fondamenta teologiche e di diritto canonico. E, accanto alle questioni più prettamente pratiche come “abbiamo l’indirizzo di posta elettronica giusto?” oppure “hanno tutti accesso a internet?”, proprio questa è la considerazione da tenere presente se vogliamo che tutti siano partecipi e se vogliamo portare con noi tutti per raggiungere mete comuni.
Sembra quindi che il “governo della Chiesa” si trovi di fronte a grandi sfide e grandi compiti. Come riesce a gestirli?
R. – In un certo senso, è sicuramente corretto affermare che ci siano delle sfide; ma il punto è anche un altro, oltre al “governo”, ed è qualcosa di più importante. Il punto è la domanda teologica del rapporto corretto tra Chiesa locale e Chiesa universale, che poi alla fine si manifesta concretamente anche appunto in quelle domande di carattere pratico. Ma prima di tutto questo, ciascuno dei partecipanti deve fare chiarezza in se stesso sul fatto che essere gli uni accanto agli altri tra Chiesa locale e Chiesa universale si riflette poi nella definizione delle competenze e delle responsabilità a queste legate. Se le competenze tra Chiesa locale e Chiesa universale e quindi tra i singoli responsabili nella guida non sono chiaramente definite e da questo originano conseguenze pratiche negative, accade che la teologia viene de facto disconosciuta. Non ultimo per rispettare nella giusta misura il rapporto tra Chiesa locale e Chiesa universale, preparando la riunione abbiamo inviato un questionario a tutti gli invitati per definire lo stato delle cose riguardo al trattamento del fenomeno-abusi sul posto. Lo scopo di questo è prendere coscienza delle affinità e delle differenze a livello di Chiesa universale, chiarire o elaborare la base sulla quale impostare l’impegno comune, riconoscere ambiti in cui è necessario apportare delle correzioni e rendere fecondo per tutti il potenziale e le competenze delle singole Chiese locali.
Molti si impegnano e vogliono dare il loro aiuto in vista di questo Incontro. Cosa potrebbe andare storto? Quali sono, secondo lei, i punti critici?
R. – C’è sempre qualcosa che può andare storto. Ma in fondo, sono fiducioso e proprio in quanto cristiani, dovremmo esserlo tutti. Il Signore stesso ci ha promesso che sarà con noi fino alla fine dei giorni. Per questo dovremmo affidare questo Incontro di febbraio al Signore, nella preghiera, nella consapevolezza e nella buona coscienza di avere fatto il possibile, secondo le nostre forze. Tra cui anche, tra l’altro, la nostra nuova homepage di prossima apertura, con uno spazio aperto a tutti e a ciascuno dei partecipanti all’Incontro. Con le informazioni messe a disposizione sul sito speriamo di rispondere a tutte le aspettative, a quelle molto alte come a quelle molto basse. Sarebbe una grande gioia se riuscissimo in questo modo a creare interesse nella gente per l’impegno della Chiesa nei riguardi della tutela dei bambini e dei giovani, a costruire fiducia e a motivare la presa di coscienza che la tutela dei bambini e dei giovani è un nostro compito comune al quale ciascun uomo e ciascuna donna può dare il proprio contributo nel suo stesso ambito.
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