25 gennaio 1959 Mons. Capovilla: i sentimenti di Giovanni XXXIII
Eugenio Bonanata – Città del Vaticano
Don Loris Capovilla è stato il segretario particolare di Papa Giovanni XXIII ed è scomparso nel 2016. Quattro anni prima, nel 2012 , ai microfoni di Luca Collodi alla Radio Vaticana ha lasciato la sua testimonianza in un’intervista conservata negli archivi dell'emittente vaticana:
R. – Quando il Papa me ne parlò la prima volta, era Papa da appena cinque giorni. Fece un cenno vago, disse: “Sul mio tavolo si riversano tanti problemi, interrogativi e preoccupazioni. Ci vorrebbe un qualcosa di singolare e di nuovo, non solo un Anno Santo”. Nel Codice di Diritto canonico, allora da poco riformato, c’è un capitolo chiamato “De Concilio ecumenico”. Più avanti, me ne ha parlato un’altra volta, e io sono sempre rimasto in silenzio. E’ venuto poi quella sera del 21 dicembre del 1958, me ne riparlò e mi disse: "Il tuo superiore ti ha accennato a questo grande disegno, ti sembra essere ispirazione del Signore? Tu finora non ha detto neanche una parola...”. E toccandomi il braccio, mi disse: “Il fatto è che tu ragioni un po’ umanamente, come un impresario che fa un progetto e chiama l’architetto, i consulenti, che si intende con le banche. Per noi invece è già un gran dono di Dio accettare una buona ispirazione e parlarne. Non pretendo di arrivare a celebrarlo, a me basta annunciarlo”.
Quali erano le preoccupazioni sulle quali Papa Giovanni aveva posto la sua attenzione?
R. – Si trattava dei problemi che erano sul tappeto, i problemi che hanno tutti: teologici, morali, storici ed anche economici. Molte volte questi sono anche un po’ aggrovigliati e non si risolvono con un semplice colloquio, specialmente se riguardano la Chiesa universale e la Chiesa particolare. Il Papa disse che eravamo noi a dover trattare queste questioni, studiarle, indagarle ed approfondirle insieme. E poi, sempre insieme, sull’altare della Confessione di Pietro, trarre le conclusioni, che sono poi i 16 documenti che oggi brillano come lampade sulla tomba dell’Apostolo. Anche dinanzi a tutti coloro che dicevano che ci voleva un gran coraggio, alla sua età, egli rispondeva che non era lui a doverlo fare: “Il Concilio lo fa il Signore, lo fa la Chiesa nel suo insieme. Noi siamo le sentinelle del momento. Dopo un Papa, ne viene un altro". Non è vero che lui aveva fretta: desiderava solo dire come dovevamo camminare, cioè tutti insieme. Entriamo in Concilio per fare cosa, prima di tutto? Per professare, in faccia al mondo, la nostra fede. Ed infatti, il giorno dell’apertura del Concilio, il momento più solenne non è stato, a mio avviso, quello della grande processione dei 2500 vescovi, questo “fiume bianco” che attraversava Piazza San Pietro. Per me, il momento più solenne è stato quando il Papa, toltosi lo zucchetto e inginocchiatosi in faccia all’assemblea, intonò: “Ego, Ioannes, Ecclesiae catholicae episcopus, credo in Unum Deum, Patrem Onnipotentem”. Quando, cioè, professò l’atto di fede.
Lei come spiega la crisi dell’Occidente, la crisi dei valori, la crisi economica e l’insoddisfazione sociale dell’inizio del Terzo Millennio?
R. – C’è una cosa che mi ha sempre colpito: la “dottrina dei carismi”, che si trova al capitolo 12, della prima Lettera ai Corinzi. Lì c’è scritto che Dio distribuisce dei doni, ma viene detta anche un’altra cosa molto importante. Al versetto 7 del capitolo 12, per me c’è la parola decisiva e determinante per la condotta del cristiano: quello che hai è tuo, la tua intelligenza, i tuoi beni materiali e culturali, la tua fede è tua; però ti è stata data “ad comunem utilitatem”, cioè per il bene comune.
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