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Una donna abusata: siamo qui per rinascere dalle nostre ferite

Dopo la preghiera che ha concluso la seconda giornata di ieri, la drammatica e toccante testimonianza di una donna che ha subito abusi a 11 anni, e per 5 lunghi anni, da un sacerdote della sua parrocchia che ha distrutto la sua vita. I sensi di colpa e le conseguenze affettive. Il percorso per ricostruire identità, dignità e fede

Roberto Piermarini - Città del Vaticano

“Da allora – ha raccontato – io che adoravo i colori e facevo capriole sui prati spensierata, non sono più esistita”. Al termine di ogni abuso – ha raccontato – “riprendevo quello che era il mio corpo, ferito e umiliato e me ne andavo credendo persino di essermi immaginata tutto. Ma come potevo io, bambina, capire ciò che era accaduto? Pensavo: “Sarà stata sicuramente colpa mia!” o “mi sarò meritata questo male? Questi pensieri – ha sottolineato - sono le più grandi lacerazioni che l’abuso e l’abusatore ti insinuano nel cuore, più delle ferite stesse che lacerano il corpo. Sentivo di non valere ormai più nulla, neppure di esistere. Volevo solo morire: ci ho provato... non ci sono riuscita”.

Le conseguenze degli abusi

La donna ha poi ricordato gli effetti devastanti di quegli abusi: disturbi alimentari, ospedalizzazioni varie: tutto urlava il suo star male mentre, completamene sola, taceva il suo dolore. Tutto veniva attribuito all’ansia per la scuola che improvvisamente, andava malissimo.

Una vita affettiva e familiare distrutta da quella drammatica esperienza

Con il primo innamoramento è emersa una realtà insopportabile. “Per non farmi sentire il dolore, lo schifo, la confusione, la paura, la vergogna, l’impotenza, l’inadeguatezza – ha ricordato - la mia mente ha rimosso i fatti avvenuti, ha anestetizzato il corpo mettendo delle distanze emotive rispetto a tutto ciò che vivevo facendo in me danni enormi”. Con il primo parto a 26 anni tutto è ritornato alla mente: il travaglio bloccato; il figlio in pericolo; l’allattamento reso impossibile per i terribili ricordi che affioravano. “Credevo di essere impazzita” ha confessato. Quando si è confidata con il marito, la confidenza è stata usata contro di lei durante la separazione, perchè, in nome dell’abuso subíto, lui ha chiesto che le fosse tolta la potestà genitoriale quale madre indegna.

Non lasciare a chi abusa il potere del suo silenzio

La donna, grazie all’ascolto paziente di una cara persona ha trovato il coraggio di scrivere una lettera a quel sacerdote, concludendo con la promessa di non lasciargli mai più il potere del suo silenzio. “Da allora e fino ad oggi, continuo un durissimo percorso di rielaborazione per ricostruire in me identità, dignità e fede. L’abuso crea un danno immediato, ma non solo: Ci dovrai convivere...sempre! Puoi solo imparare, se ci riesci, a farti ferire di meno”.

Un’infinità di domande a cui non trovi risposta

“Perché a me?”, si chiedeva, oppure: “Dov’eri, Dio?”. “Quanto ho pianto su questa domanda!” ha confessato. “Non avevo più fiducia nell’Uomo e in Dio, nel Padre-buono che protegge i piccoli e i deboli. Io, bambina, ero certa che nulla di male potesse venire da un uomo che “profumava” di Dio! Come potevano le stesse mani, che tanto avevano osato su di me, benedire e offrire l’Eucarestia? Lui adulto e io bambina... aveva approfittato del suo potere oltre che del suo ruolo: un vero abuso di fede! E non per ultimo: come fare a superare la rabbia e non allontanarsi dalla Chiesa – si è chiesta - dopo un’esperienza del genere soprattutto di fronte alla gravissima incoerenza di quanto predicato e quanto agito dal mio abusatore, ma anche da chi, di fronte a questi crimini, ha minimizzato, nascosto, messo a tacere, o ancor peggio non ha difeso i piccoli, limitandosi meschinamente a spostare i sacerdoti a nuocere da altre parti? Di fronte a questo, noi vittime innocenti, sentiamo amplificato il dolore che ci ha ucciso: anche questo è un abuso alla nostra dignità umana, alla nostra coscienza, nonché alla nostra fede! Noi vittime, se riusciamo ad avere la forza di parlare o denunciare, dobbiamo trovare il coraggio di farlo pur sapendo che rischiamo di non essere credute o di dover vedere che l’abusatore se la cava con una piccola pena canonica. Ciò non può e non deve essere più così!”.

40 anni per trovare la forza della denuncia

“Volevo rompere il silenzio di cui si nutre ogni forma di abuso; volevo ripartire da un atto di verità, scoprendo poi che questo atto offriva un’opportunità anche a chi aveva abusato di me” ha continuato. L’iter di denuncia lo ha vissuto con un costo emotivo molto elevato, soprattutto ha incontrato difficoltà nel parlare con sei persone di grande sensibilità, ma solo uomini e per di più sacerdoti. “Io credo – ha sostenuto - che una presenza femminile sarebbe un’attenzione necessaria quanto indispensabile per accogliere, ascoltare e accompagnare noi vittime. Quella parte di me che ha sempre sperato che l’abuso non fosse mai accaduto, si è dovuta arrendere, ma al contempo ha ricevuto una carezza: io ora so che sono altro, oltre l’abuso subìto e le cicatrici che porto”.

La vittima non è colpevole del suo silenzio! Le ferite non vanno in  prescrizione

“La Chiesa – ha sottolineato - può andare fiera della possibilità di procedere in deroga ai tempi di prescrizione (diritto negato dalla giustizia italiana), ma non del fatto di riconoscere come attenuante, per chi abusa, l’entità del tempo trascorso tra i fatti e la denuncia (come nel mio caso). La vittima non è colpevole del suo silenzio! Il trauma e i danni subiti sono tanto maggiori quanto più è lungo il tempo del silenzio, che la vittima trascorre tra paura, vergogna, rimozione e senso di impotenza. Le ferite non vanno mai in prescrizione, anzi!”.

Ripartire insieme da chi non ce l’ha fatta, a rinascere dalle proprie ferite

“Oggi io sono qui – ha concluso - e con me ci sono tutti i bambini e le bambine abusati, le donne e gli uomini che provano a rinascere dalle loro ferite, ma c’è, soprattutto, anche chi ci ha provato e non ce l’ha fatta, e da qui, e con loro nel cuore, dobbiamo ripartire insieme”.
 

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23 febbraio 2019, 09:28