Restaurato ed esposto ai Musei Vaticani arazzo del cenacolo di Leonardo
Eugenio Murrali – Città del Vaticano
È grande come un bilocale, il suo ordito e il suo filato sono di seta, con oro e argento, i secoli e le esposizioni, soprattutto nel periodo pasquale, lo avevano ridotto piuttosto male, ma per fortuna ha incontrato le mani sapienti delle restauratrici vaticane. Il mirabile arazzo che riprende il cenacolo di Leonardo Da Vinci è tornato nella Pinacoteca Vaticana e vi resterà fino alla fine del mese, quando partirà per due mostre.
Sulle tracce di Leonardo
Ha celebrato il successo un incontro ai Musei Vaticani: “Sulle tracce di Leonardo in Francia. L’enigma dell’arazzo dell’Ultima cena” a cui hanno preso parte il direttore dei Musei, Barbara Jatta, gli studiosi Pietro Marani e Alessandra Rodolfo, la restauratrice Chiara Pavan, e François Saint Bris, proprietario del Castello di Clos Lucé dove dal 6 giugno l’opera sarà esposta nella mostra « La Cène de Léonard de Vinci pour François Ier, un chef-d'oeuvre en or et soie», per i 500 anni dalla morte di Leonardo, avvenuta proprio nel castello nei pressi di Amboise.
La storia
L’arazzo è arrivato in Vaticano già nel 1533, quando Francesco I lo dona a Papa Clemente VII che, sbarcato a Marsiglia il 15 ottobre 1533, il 28 dello stesso mese celebra il matrimonio tra Caterina de’ Medici ed Enrico II, figlio di Francesco I. Un’attenta lettura iconografica – ha spiegato Alessandra Rodolfo durante l’incontro – ha permesso di collegare l’arazzo alle persone di Luisa di Savoia e di suo figlio Francesco I.
La datazione
Dallo stemma, pertinente alla tessitura, e che prima del restauro si pensava fosse un’aggiunta, si comprende che il tappeto risale a dopo il 1515. Altri particolari spostano la datazione alla fine del 1516, quando – come ci ricorda uno dei massimi esperti di Leonardo, Pietro Marani– il genio toscano è già ad Amboise. Non sappiamo chi sia l’autore dell’arazzo, né dove esso sia stato realizzato, ma una serie d’indizi ci permettono di non escludere l’ambiente leonardesco.
Il restauro
La meravigliosa opera era molto usurata. Chiara Pavan, che ha guidato il restauro conservativo realizzato dal laboratorio dei Musei Vaticani, ha spiegato che si è dovuto mettere a punto un nuovo protocollo per intervenire sull’arazzo. A complicare le operazioni anche i precedenti interventi di restauro, ormai integrati con il supporto retrostante.
Un’analisi delle fibre ha messo in luce che il capolavoro si depolimerizzava. È stato necessario studiare un tipo di restauro come quelli compiuti sui tessuti. Si è proceduto a una pulitura a secco, meccanica. Si è resa indispensabile tuttavia un’umidificazione controllata per reidratare le fibre. Sui circa 45 metri quadri di arazzo è stata dunque fatta una spugnatura, quindi un consolidamento ad ago.
La tecnica utilizzata
Tutto il laboratorio, composto da sette persone, è stato impegnato nella difficile impresa, ma soprattutto Viola Ceppetelli, Laura Pace Morino e Emanuela Pignataro hanno eseguito il restauro a tutto campo. Seguendo la tecnica del “sandwich”, è stato utilizzato il lino dei vecchi restauri come supporto di cucitura e si è posizionato su varie zone, sagomandolo, un tulle in nylon precedentemente tinto, per proteggere ulteriormente l’arazzo. La grande operazione è stata dedicata alla restauratrice Natalia Maovaz, tragicamente scomparsa nel 2014.
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui