Auza: chiamare col loro nome le violenze contro i fedeli delle religioni
Giada Aquilino - Città del Vaticano
Siamo tutti “inorriditi” per i recenti attacchi contro la comunità ebraica a Pittsburgh, Poway e Parigi, contro quella musulmana di Christchurch, Queens, Quebec City e Londra, contro quella cristiana nello Sri Lanka, nel Sahel, in Nigeria, Iraq e Siria, e contro quelli rivolti ai fedeli di altre religioni: per affrontare il “male del terrorismo” e gli atti di “violenza contro i credenti” di ogni religione “dobbiamo avere il coraggio e la franchezza di chiamare le cose con il loro nome”. Lo ha sottolineato l’arcivescovo Bernardito Auza, Osservatore permanente della Santa Sede all'Onu, intervenuto ieri alle Nazioni Unite di New York all’evento dedicato a “Lotta contro il terrorismo e altri atti di violenza legati alla religione o al credo: promuovere la tolleranza e l'inclusione”.
Attacchi anticristiani
Il nunzio apostolico ha notato come il fatto che tali violenze colpiscano i credenti proprio “mentre si riuniscono a pregare nei loro luoghi di culto” le renda “particolarmente malvagie”: “paradisi di pace e serenità diventano rapidamente camere di esecuzione, mentre - ha aggiunto mons. Auza - bambini, uomini e donne indifesi perdono la vita semplicemente per essersi riuniti per praticare la loro religione”. Molti di questi attacchi stanno “finalmente” ricevendo “l'attenzione, la condanna e la risposta impegnata che meritano”, anche grazie alla risoluzione 73/285 dell'Assemblea Generale dell’Onu che ha condannato - ha evidenziato l’Osservatore permanente della Santa Sede all'Onu - “tutti gli attacchi terroristici contro luoghi di culto motivati dall’odio religioso”, citando “l’islamofobia, l’antisemitismo e la cristianofobia”. È stata la “prima volta”, ha notato, che in una risoluzione delle Nazioni Unite gli attentati contro i cristiani sono stati “esplicitamente menzionati” insieme a quelli contro i musulmani e gli ebrei. Eppure per molti leader nazionali e media gli attacchi contro i cristiani “rimangono non riconosciuti” o per essi vengono utilizzati “nuovi eufemismi per evitare di menzionare la natura specificamente anticristiana della violenza”, come nel caso delle vittime delle stragi in Sri Lanka per le quali si è parlato di “adoratori di Pasqua”. Non bisogna dunque, ha sottolineato, “lasciare indietro nessuna delle vittime della violenza antireligiosa”.
Responsabilità degli Stati
Il nunzio ha citato anche altri provvedimenti internazionali al riguardo, osservando però che purtroppo anche i “migliori strumenti” non sono sufficienti: “è necessario concentrarsi - ha ribadito - sulla responsabilità e sulle azioni degli Stati per proteggere tutti i loro cittadini in modo equo e affrontare con vigore i fattori culturali necessari per promuovere la tolleranza e l’inclusività”. Documenti delle Nazioni Unite e di altre realtà, come ad esempio Aiuto alla Chiesa che Soffre, testimoniano di violazioni della libertà religiosa da parte di alcuni Stati attraverso la legislazione interna o discriminazioni, fino ad arrivare ad “atrocità di massa, uccisioni e stupri perpetrati sulla base dell'odio”. Si evidenziano pure forme sempre più “aggressive” di “nazionalismo ostile” contro le minoranze religiose che hanno portato alla “stigmatizzazione sistemica” e all'intimidazione” dei medesimi gruppi: “proteggere il diritto alla libertà di religione, coscienza e credo” è quindi uno dei passi essenziali per contrastare il terrorismo e gli altri atti di violenza contro i credenti delle religioni e per promuovere una cultura della tolleranza e dell’inclusione.
Dialogo e rispetto
L’arcivescovo Auza ha ribadito pure l’importanza dell’“uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge”, di una “positiva e rispettosa separazione” tra religione e Stato, dell’attribuzione della colpa a chi interpreta o manipola il credo religioso “per commettere il male” e non alle religioni in generale. L’esortazione è stata poi a un impegno reale per il dialogo “interculturale e interreligioso”, sulla scia del Documento sulla fratellanza umana per la pace e la convivenza comune, firmato nel febbraio scorso ad Abu Dhabi da Papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb, partendo anche da un'educazione efficace. “La società raccoglie ciò che semina”, ha riflettuto l’arcivescovo auspicando che l’insegnamento “nelle scuole, nei pulpiti e attraverso internet” non favorisca “intransigenza e radicalizzazione estremista” ma formi gli studenti al dialogo, al rispetto della dignità altrui e dello stato di diritto, alla riconciliazione e alla giustizia.
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