La magia dello spazio condiviso
Andrea Monda
Daniel Libeskind ha quell’approccio semplice e diretto, brillante senza essere mai superficiale che dice molto della sua libertà interiore. Un atteggiamento che gli permette di attraversare la vita con levità nonostante sia uno dei più grandi e celebri architetti del mondo. Con gioia ha accettato di parlare con «L’Osservatore Romano» di argomenti impegnativi come il rapporto tra arte e spiritualità, tra bellezza e dolore, lui che, tra le diverse opere, ha realizzato il museo della Shoah di Berlino e il memoriale di Ground Zero. Ma come primo tema della conversazione ha preferito parlare del suo antico e mai sopito amore, la musica, che tanto si intreccia con l’arte e con l’architettura in particolare.
La sua prima passione artistica è stata la musica. Alcuni pensano che la musica sia l’arte più spirituale di tutte, lei è d’accordo?
R.-Penso che la musica sia alla base dell’architettura e dell’arte in generale. Sappiamo che la musica e il suo ritmo sono venuti prima di qualsiasi realizzazione dello spazio o costruzione. Prima di tutto c’è la musica, il suono, il tempo, il ritmo. E poi c’è il corpo che si muove nello spazio. Quindi direi che la musica è decisamente alla base dell’architettura. Anche osservando la costruzione del Partenone, possiamo vedere come l’aia di Atene era anzitutto danza prima di consolidarsi come luogo, come un luogo memorabile sul quale costruire. Quindi sì, secondo me la musica è il fondamento dell’arte e specialmente dell’architettura così come quest’ultima è un’estensione della musica, per molte ragioni. Una delle più ovvie è che il senso dell’orientamento e dell’equilibrio risiede nell’orecchio, non nell’occhio. Pertanto, il fenomeno dell’acustica precede quello visivo. Ma ancor più, penso che l’architettura sia strutturata da un senso musicale dello spazio. Da musicista sono arrivato all’architettura in modo naturale, diretto. Non sento di avere abbandonato la musica, semplicemente l’ho trasferita su un altro strumento, che è l’architettura.
Ma innanzitutto esiste una relazione tra arte e spiritualità?
R.-Naturalmente credo che nella musica come in ogni altra forma d’arte ci sia un collegamento spirituale con il mondo. Beh, se non ci fosse alcun collegamento, non ci sarebbe l’arte. Perché l’arte non è solo il dato materiale, un dipinto non è un pezzo di tela con qualche pigmento applicato sopra. L’arte non è quindi un oggetto materiale, anche se viene trasmesso attraverso un oggetto materiale, c’è sempre un messaggio spirituale. Anche quando si tratta di una mela di Cézanne, non si tratta di una mela, è qualcos’altro.
La musica e il disegno (architettura e pittura) possono essere ricollegate alla logica filosofica e alla scienza e inducono a pensare che nel mondo esista come un grande disegno, in parte nascosto che l’uomo però è in grado di riconoscere. Questo pensiero è stato considerato normale per secoli, oggi invece la visione nichilista per cui tutto è frutto del caso sembra prevalere, qual è la sua opinione in proposito? C’è un grande disegno che ogni uomo può riconoscere o no?
R.-“Grande disegno” per me significa semplicemente che c’è un’esperienza nel mondo per ogni essere umano e ovviamente questa esperienza nel mondo subisce trasformazioni periodiche, crisi, cambiamenti, ma ciò non cambia il fatto che ad essere al centro è l’esperienza umana nel mondo. Tutti gli altri aspetti — quelli scientifici e le altre discipline autonome — sono parte di questa esperienza nel mondo, che in realtà è parte del mistero di un mondo in continuo cambiamento. In questa esperienza umana del mondo c’è anche l’elemento che noi uomini comprendiamo, in parte, il cambiamento che non è semplicemente guidato da una sorta di caos. Il caos probabilmente è la risposta nostra, attuale, al nostro essere nel mondo. Ma anche la nostra risposta è soggetta al cambiamento.
Henry Miller ha scritto che: «L’arte non insegna assolutamente niente, a parte il senso della vita» è d’accordo?
R.- Forse Henry Miller non ha imparato niente dall’arte, il che sarebbe un peccato, perché qualcosa avrebbe dovuto imparare.
Picasso invece sosteneva che: «Il segreto dell’arte non sta nel cercare, bensì nel trovare».
R.-Questo, direi, è una tipica metafora d’artista di un artista di grande successo. Ma penso che la sua vita dimostri tutt’altro, visto che ha cercato per tutta la vita.
Un altro grande pittore, Chagall, affermava che «L’arte è l’incessante sforzo di gareggiare con la bellezza dei fiori, senza mai eguagliarla». Qual è il rapporto tra arte e natura?
R.-C’è del vero in questo, decisamente. C’è del vero nell’impossibilità, nell’asimmetria delle due attività, natura e arte. Quanto dice Chagall dimostra che appartengono a mondi differenti.
Quando ho visitato il museo ebraico a Berlino da lei ideato, mi è venuta in mente una frase dell’allora cardinale tedesco Joseph Ratzinger: «La bellezza ferisce». La ferita che la bellezza produce scuote la coscienza umana, ricordandogli il suo destino ultimo e ultra-terreno, lei è d'accordo?
R.-È un’affermazione davvero profonda acuta su ciò che l’arte è veramente. Penso che egli catturi qui una cosa molto essenziale, sulla quale sono d’accordo.
La bellezza e il dolore sono strettamente collegati. Oggi guardando il mondo contemporaneo si ha la sensazione che la società occidentale abbia creato un mondo an-estetico, che rimuove il dolore, ma anche la bellezza. O forse sono troppo pessimista?
R.-Anche questa è una riflessione molto profonda. È assolutamente vero che spezzando la relazione tra la profondità dell’animo umano e l’idea di arte ed espressione, si rimuovono le dimensioni sia dell’arte sia dell’animo umano.
Lei è ebreo polacco trasferito nel 1960 a New York, cosa pensa degli Usa di oggi? La chiusura rispetto agli stranieri non è forse un tradimento ad una lunga tradizione ispirata ai valori dell’apertura e dell’accoglienza?
R.-Si può constatare che le cose non rimangono uguali. L’America che vediamo oggi, la retorica del governo contro gli immigranti, contro le persone prive di istruzione, è una retorica che non mi avrebbe mai permesso di venire in questo paese. Perché i miei genitori non erano istruiti. Lavoravano in fabbrica. Siamo venuti perché l’unica sorella sopravvissuta di mio padre — sopravvissuta ad Auschwitz — viveva qui. Ma oggi non avremmo i requisiti per immigrare in questo paese, perché l’attuale governo vuole solo persone con una buona istruzione e di successo. Quindi sì, penso che dobbiamo renderci conto che il mondo non rimane sempre uguale, che il mondo è circondato da pericoli e l’America non è immune ai cambiamenti negativi, che ho visto apparire molto chiaramente all’orizzonte mentre sono sempre più numerose le affermazioni antidemocratiche, le decisioni antidemocratiche da parte di questo governo. Quindi sì, penso che non sia la stessa America. È un’America che segue vie diverse.
Su questo argomento alcuni giorni fa ho intervistato la scrittrice americana Marilynne Robinson, la quale ha detto che l’America è dominata dalla paura, che ne pensa?
R.-Non è nulla di nuovo per me. Sono cresciuto in Polonia sotto il comunismo e sotto un antisemitismo sostenuto dallo stato. Ricordo il soffio della paura, che in realtà era un’ombra oscura sopra l’intera società. Poi quando sono tornato in Polonia, dopo il cambiamento, ho visto un popolo nuovo, una nuova rinascita della Polonia. Quindi sì, sono d’accordo sul fatto che le ombre della paura si stanno estendendo nel mondo e anche negli Stati Uniti.
L’arte ha una funzione sociale? Può educare il popolo ai valori civili, alle virtù?
R.-Questa è una buona domanda, sulla quale hanno discusso in molti. Sì, ha un valore civico. Non attraverso una qualche sorta di realismo socialista, penso, o una specie di ingegneria sociale nell’arte, che è sempre stata un fallimento. Tuttavia ritengo che l’arte autentica, l’arte che giunge dall’animo umano nella sua solitudine, si connetta con un altro animo solo attraverso una sorta di processo trasfigurativo. Non posso che definirlo trasfigurazione. E accende una sorta di fiamma d’immaginazione e creatività in chi riceve e in chi crea. Quindi penso che sia vero che è diverso dall’ingegneria sociale, diverso dal cercare di trasmettere messaggi, ma l’arte, per la sua autenticità, secondo me è già una sorta di verità che viene comunicata in un modo che di fatto è trasfigurativo.
T.S. Eliot sosteneva che per secoli la cultura è stata trasmessa non dalla scuola ma dalla Chiesa, poi qualcosa con la modernità si è interrotto, il rapporto tra Chiesa e arte è entrato in crisi, come dimostra anche l’architettura sacra. Quale può essere il compito della Chiesa oggi in riferimento all’arte?
R.-Direi che la necessità di trattare con il contemporaneo significa comunicare i valori, la verità spirituale, esige un’architettura che non sia sentimentale, che non abbia nostalgia del passato, bensì che sia capace di entrare nel discorso del presente. Direi che l’architettura deve assumersi qualche sorta di rischio al fine di essere fedele a se stessa e al suo messaggio.
Lei è d’accordo sulla definizione di Northrop Frye della Bibbia come Grande Codice dell’arte e della letteratura?
R.-In qualche modo lo è. Infatti, chi saremmo senza i racconti, le memorie racchiusi in quei testi? Ma non la definirei un codice, perché questa parola implica una sorta di metabolismo che assorbe il presente nel futuro. Direi che non è un codice, bensì una serie di metafore profonde, di trasposizioni sempre all’opera. In questo senso penso che il fondamento biblico della società occidentale sia senz’altro quello sfondo che dà un senso agli interrogativi dell’umanità: chi siamo? dove siamo? dove stiamo andando? qual è il senso delle cose?
Questo mi ricorda il rocker Bruce Springsteen che da piccolo ha ricevuto un’educazione cattolica e ha detto che tutte le immagini, i racconti che ha conosciuto attraverso la Bibbia da ragazzo lo hanno influenzato per tutta la vita. Lei è ebreo e può comprendere questo discorso.
R.-Sì, perfettamente. Io la leggo la Bibbia, il libro più bello e più letto. Ma non leggo solo la Bibbia, leggo anche il Nuovo Testamento, il Corano, il Talmud anche perché questi testi sono importanti per comprendere che cosa abbiamo in comune, da dove arriviamo, quali visioni sono state create. Sono testi che riescono a penetrare la verità della vita umana.
Papa Francesco sta cercando di creare un dialogo tra le grandi religioni. Ritiene che sia possibile che le religioni si uniscano per la pace?
R.-Penso che quello che sta facendo Papa Francesco sia fantastico. Secondo me non c’è altro modo, se non attraverso il fatto che ci rendiamo conto che c’è qualcosa di più grande delle ideologie, incluse le teologie, che sono state in qualche modo spesso declamate e usate da ogni sorta di estremismo. Il lavoro del Papa consiste nel cercare quel radicamento dell’umanità e si basa sul credere che c’è una speranza comune di unire le persone nella pace. Altrimenti mi chiedo: qual è il significato di questo mondo? Non avrebbe nessun significato. La missione di Papa Francesco è davvero molto importante e rilevante, specialmente in questo tempo difficile. Papa Francesco spesso ripete agli insegnanti e agli educatori di suscitare nei giovani la creatività. L’attenzione alla dimensione della creatività Papa Francesco la poggia sui testi biblici, poiché Dio è Creatore e gli uomini sono figli di Dio, e quindi creativi.
Secondo lei ogni uomo ha una dimensione artistica, creativa?
R.-Sì, non c’è alcun dubbio. All’inizio del mio ultimo libro, intitolato Edge of Order, scrivo che tutti possono essere architetti. Tutti già sono architetti. Nel momento stesso in cui aprono gli occhi, sono già esperti di spazio, di luce, di proporzioni, del corpo. Sono profondamente d’accordo che la creatività è al centro della nostra tradizione, della nostra tradizione comune, e che è fondamentale alimentare la creatività, specialmente nei giovani, mostrando che il mondo è una meraviglia aperta, che dovremmo essere stupiti da questa meraviglia del mondo. È questa la creatività che considero necessaria per vincere il cinismo, e spesso lo scetticismo che viene imposto ai giovani dagli anziani. Oggi ci concentriamo tanto su ombre e telecamere, ma la vita reale è così fantastica, così bella, così profonda che spesso siamo semplicemente accecati dai media d’informazione invece di guardare negli occhi il prossimo.
Nelle grandi città gli uomini vivono negli appartamenti che possono apparire come i simboli della grande solitudine oggi molto diffusa nel mondo occidentale. Si può secondo lei tornare alla dimensione della “casa” all’interno del “villaggio” e come?
R.-È vero, come ha sottolineato Robert Musil molto tempo fa, che nasciamo in una stanza bianca e moriamo in una bianca stanza di ospedale. Ma questo significa dimenticarsi di ciò che il mondo è in realtà. Dovremmo invece concentrarci su quello che definirei lo spazio condiviso, lo spazio comune condiviso, il cosiddetto spazio pubblico. Infatti, senza spazio pubblico, senza un collegamento le persone possono essere condannate a vivere la propria vita nella loro piccola stanza e la vista stessa cade a pezzi. Il punto di partenza è creare una sorta di spazio in cui vivere, un salotto, dove le persone possono condividere uno spazio comune. E questo vale in modo particolare per le grandi città, che stanno iniziando a diventare sempre più private, più chiuse, sia per i ricchi sia per i poveri. Credo dunque che sia questa la chiave per creare una città equa, che superi l’immensa disparità di reddito e disuguaglianza spirituale, e crei un senso di “insieme”. Per me è questo il compito della città, dell’architettura e questo potrebbe essere in qualche modo un ritorno, inatteso, dall’abitazione alla casa.
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