La Chiesa in campo per promuovere la dignità del lavoro nell'era digitale
Marco Guerra – Città del Vaticano
“La dignità e il futuro del lavoro nell’epoca della quarta rivoluzione industriale” è il tema del convegno organizzato dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, che si tiene oggi e domani presso la Casina Pio IV in Vaticano.
A rischio molte professioni
Esperti di tutto il mondo, religiosi e laici, riflettono sull’irruzione dell’automatizzazione nel processo di produzione, basata sull’accelerazione della trasmissione di dati. La federazione internazionale di robotica ha stimato che nel 2018 almeno 35milioni di robot hanno condiviso la nostra vita domestica e la vendita di questi prodotti aumenta con un ritmo del 30% annuo. Allo stesso tempo, secondo alcuni studi dell’Università di Oxford e della Banca Mondiale, tra il 20 e il 50% delle attuali occupazioni corrono il rischio di essere sostituite da macchine digitali entro la prossima decade. Fenomeni che potrebbero non essere estranei all’incremento di iniquità e ad un aumento della polarizzazione.
La centralità dell’essere umano
Economisti, ingegneri, sociologi e bioeticisti ritengono che queste evidenze dimostrano che non c’è solo l’emergenza di formazione più approfondita riguardo le nuove tecnologie ma anche più dedicata alle cosiddette “soft abilities” come l’empatia, intelligenza emozionale, l’intuizione e la creatività. In questo scenario diventa dunque cruciale non perdere di vista la centralità dell’essere umano e del suo sviluppo integrale.
Il ruolo dell’accademia delle scienze
I lavori del convegno sono quindi entrati nel vivo mettendo a fuoco le conseguenze della digitalizzazione sulla dignità umana, sulla preoccupazione della perdita di posti di lavoro, sulla ricollocazione della produzione e su cosa significa essere umani nell’epoca dell’intelligenza artificiale. L’accademia della Scienze diventa quindi il posto giusto per vedere questi cambiamenti da un'altra angolazione, quella appunto della dignità umana, soprattutto ora che ancora possibile evitare derive che disumanizzano il mercato del lavoro.
Algoritmi nuovo attore sociale
Frate Paolo Benati ha posto in evidenza come gli algoritmi siano da considerare “nuovo attore sociale” che può prendere decisioni al posto dei lavoratori. Si è presa coscienza che l’algoritmo cambia la dimensione sociale e culturale del lavoro, ma allo stesso tempo che le “agenzie umane” sono ancora in una posizione forte e possono guidare il processo di ibridizzazione del lavoro. Per questo l’Accademia delle Scienze ha esortato a confidare di più nel ruolo che le persone possono giocare nello sviluppo futuro della tecnologia.
Zamagni: l’amore è discrimine tra macchine e uomo
Sulle sfide aperte dal processo di digitalizzazione e il contributo che la Chiesa può offrire per l’umanizzazione del mondo del lavoro, VaticanNews ha intervistato il prof. Stefano Zamagni, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali:
R. - L’Accademia delle Scienze Sociali ha voluto organizzare questo workshop internazionale su un tema di straordinaria attualità, anche per offrire al Santo Padre un materiale di riflessione proveniente da Paesi diversi, culture diverse, su cosa vuol dire declinare oggi la dignità del lavoro nella stagione della digitalizzazione. Il tema è antico quanto l’umanità, però oggi ci sono aspetti nuovi, perché se ieri all’epoca di Leone XIII, con la Rerum novarum, il tema della dignità consisteva basicamente nel chiedere alle imprese capitalistiche di non sfruttare il lavoro, oggi lo stesso tema della dignità ha fatto un passo in avanti, perché l’organizzazione del lavoro oggi è soprattutto nelle mani delle nuove tecnologie; pensiamo ai robot dotati di intelligenza artificiale. Allora, la sfida qual è? Che oggi la cosiddetta “ibridazione” tra l’Homo sapiens e la macchina sapiens pone problemi delicatissimi, perché oggi le macchine sono intelligenti; ieri erano stupide. Quindi il rapporto era tra lavoratore e datore di lavoro. Oggi, accanto a quello, c’è il rapporto tra lavoratore e – appunto – macchina sapiens, cioè l’intelligenza artificiale. Quindi si tratta di pensare a modi di regolazione di questo rapporto, perché non basta dire che le macchine intelligenti aumentano la produttività del lavoro – che è vero –, perché se tutto questo avviene a scapito della dimensione relazionale dell’essere umano e soprattutto della sua profonda dignità, alla fine della fiera, come si è soliti dire, il vantaggio non può essere positivo, perché diversamente le varie agenzie che in giro per il mondo si occupano dell’argomento, lo trattano, ma lo fanno dal punto di vista o ingegneristico, tecnico, o dal punto di vista profittabilità. Nessuno negherà l’importanza di questo ma il rischio che si sta correndo è quello di dimenticare la vera posta in gioco.
Quindi l’uomo deve mettere quel quid di sensibilità e di etica che le macchine non hanno?
R. - Questa è una grande questione. All’epoca della rivoluzione scientifica – 1600 – Cartesio uscì con quella frase che è rimasta celebre: “Cogito, ergo sum” - “Penso, dunque sono”, perché allora e fino alla prima metà del Novecento, quindi tanti secoli, il discrimine tra umano e non umano era esattamente nell’attività del pensare. Qual è la novità di oggi? Che noi abbiamo le macchine pensanti. L’intelligenza artificiale vuol dire questo. Il machine learning, l’apprendimento automatico, vuol dire questo. In un’epoca in cui abbiamo oltre all’Homo sapiens, la macchina sapiens, qual è il discrimine tra umano e disumano? Quello che noi sosteniamo è che il discrimine è in una parola: amore. Le macchine quanto intelligenti, addirittura più intelligenti dell’essere umano, non saranno mai in grado di amare, dove questo vuol dire avere compassione per l’altro, prendersi cura dell’altro ed esprimere sentimenti morali che le macchine – ripeto – per quanto intelligenti non potranno mai avere. Questa però è una sfida non da poco, perché molti si limitano a dire: “No, questo non c’entra, perché questo è legato soltanto ai convincimenti religiosi”.
Oggi si è parlato di umanizzare la tecnologia, i processi tecnologici. Una delle soluzioni è quella di far entrare i lavoratori nel processo di costrizione degli algoritmi che sempre di più condizionano il nostro modo di lavorare e di vivere …
R. - Esatto. Questa è una via, ma non l’unica, perché in teoria i lavoratori potrebbero dare vita a commissioni di lavoro tali per cui si propongono e li si lascia fare. Produrre e articolare gli algoritmi, però nulla esclude che se questi lavoratori sono, perché manipolati, presi soltanto dall’istanza di guadagnare più soldi, di aumentare il benessere materiale, il problema non si risolve. Siamo alle solite. Non basta dire: “Lasciamo fare ai lavoratori”, perché sei lavoratori sono manipolati, vittime del modello neo-consumista, è chiaro che daranno il loro placet alla redazione di algoritmi che vanno in quella direzione.
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