Libro di Galantino: superare paure e indifferenza con l’incontro
Paolo Ruffini
Ho letto una volta di una disputa, a tratti surreale, fra due dei più grossi scienziati del secolo scorso, Hans Bethe e Leó Szilárd. Si racconta che i due discutessero a proposito dell’opportunità di tenere un diario delle cose viste e vissute, delle persone incontrate, delle emozioni e dei pensieri suscitati. Sembra che il primo avesse detto al secondo — il quale intendeva scrivere un diario, ma non per sé, per memoria di Dio — che il suo progetto non aveva molto senso, perché probabilmente «Dio sapeva già tutto». E si dice che Szilárd avesse risposto: «Sì, certo, ma non conosce la mia versione». Questo aneddoto mi è ritornato in mente leggendo il libro di don Nunzio Galantino, che è un diario pubblico, scritto per sé, per Dio, per gli altri; quasi a riaffermare l’importanza di cercare — e trovare — sempre il tempo per fermarsi a riflettere, per annotare quel che ci accade, per ricordare; certamente a significare che solo tenendo insieme i propri ricordi con quelli degli altri, la propria identità con quella degli altri, solo rimanendo legati a Dio, solo sottraendosi alla vertigine di una corsa solitaria e senza sosta, solo cercando la luce nell’oscurità che attraversiamo si riesce, se non a vedere, a intravedere la verità delle cose, e a ridare un senso alle parole.
Una parola fra tutte attraversa questo libro: “confine”. Secondo alcuni è un limite necessario, è ciò che ci separa, che ci deve separare, proteggere. Anche se il prezzo è l’impossibilità di guardare oltre le colonne d’Ercole del nostro orizzonte. Secondo altri — fra questi don Nunzio — è al contrario il punto di incontro fra noi e gli altri; è ciò che ci unisce in una molteplicità, ciò che rende significanti le nostre identità, ricco ogni dialogo, infinito l’orizzonte, nessuna terra straniera. Un’altra parola è “dialogo”, che in un tempo dove troppe volte la regola è il monologo, viene spesso visto come segno di debolezza. In questo libro, emerge come sia vero il contrario: né il dialogo né il confronto, quando sono autentici, appiattiscono il Vangelo sullo spirito del tempo. Il dialogo non è voglia di sintesi a tutti i costi. È capacità di ascolto, voglia di conoscenza.
“Dialogo” e “confine” sono due parole connesse e travisate. Se solo trovassimo tutti il tempo di guardare dentro le nostre vite, di ricordare con gli occhi del cuore quel che abbiamo vissuto, emergerebbe chiaramente come il dialogo è ciò che cerchiamo, sempre, e come il confine sia spesso dentro di noi. Nel senso che sta a noi discernere il confine tra il bene e il male, guardandoci dentro. Siamo noi a decidere che cosa far uscire dal nostro cuore. E che cosa lasciar entrare. Come dice Gesù, secondo il racconto di Marco: «Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro. [...] Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza» (Marco, 7, 15 e 21-22).
Quanto a cosa invece può superare il nostro confine, rompere il velo di ipocrisia che ci impedisce di vedere, don Nunzio cita quasi all’inizio del suo libro-diario una bellissima riflessione di Martin Buber: «“Dio abita dove lo si lascia entrare”. Ecco ciò che conta in ultima analisi: lasciar entrare Dio. Ma lo si può lasciar entrare solo là dove ci si trova e dove ci si trova realmente, dove si vive e dove si vive una vita autentica. Se instauriamo un rapporto santo con il piccolo mondo che ci è affidato [...] allora lasciamo entrare Dio».
Leggere questo libro è dunque un po’ intraprendere un viaggio dentro noi stessi, un viaggio che, pur non essendo il nostro, parla anche di noi, delle nostre vite, della nostra incapacità spesso a distinguere ciò che è grande da ciò che è piccolo, del segreto che dovremmo imparare meglio dai bambini di come rialzarsi dopo ogni caduta. Veniamo portati in Romania, e fatti partecipi di un’amicizia, quella fra don Nunzio e Mino Damato, che supera i confini della morte e vive in un progetto che ha cambiato la vita a centinaia di migliaia di bambini abbandonati e infettati colpevolmente con il virus dell’hiv. Ci ritroviamo poi anche a Lesbo, dietro a un filo spinato, di fronte a una domanda che capovolge l’al di qua e l’al di là di un confine. «Ma chi sta veramente dietro il filo spinato? Loro o piuttosto anche noi? Noi che assomigliamo a coloro che al tempo di Etty Hillesum abitavano nelle comode ville? Non siamo noi oggi, nelle nostre comode case, nella nostra comoda democrazia, ma comunque responsabili di questa e di altre guerre, a essere come loro dietro i fili spinati? Che cosa racconteremo alle generazioni future di questo pezzo della storia? Che cosa racconteremo dell’isola di Lesbo? Che non è più la patria della poetessa educatrice, ma solo della morte e dell’emergenza. Quale Europa stiamo costruendo, ora che abbiamo rinunciato ai valori che hanno fatto nascere l’Europa?».
Ed eccoci quindi ad Aleppo, e poi in Giordania. E di nuovo in Italia, accanto a Dj Fabo, a interrogarci su come sia possibile, su come possa accadere di considerare l’eutanasia una risposta al dolore, alla sofferenza, chiamati più che a un giudizio a un’assunzione di responsabilità: «Dobbiamo avere il coraggio e la sapienza di andare in un’altra direzione. Dove più si alza il grido di bisogno e di richiesta d’aiuto di chi soffre, ad esempio, per una grave e inguaribile malattia, è necessario investire più risorse, assicurando così un maggiore livello di assistenza. Ma il problema non è solo economico. Quello che dobbiamo — ed è un dovere morale — a chi vive tali drammi e alle loro famiglie è soprattutto una sincera prossimità umana, una solidarietà fattiva che possa smontare alla radice il tarlo cattivo della disperazione».
Pagina dopo pagina eccoci a riflettere sulla politica, sulle regole dell’economia, sul rischio di farci male da soli pensando che il destino della Terra non ci riguardi direttamente, e che ogni popolo, ogni nazione, ogni individuo possa salvarsi da solo. Eccoci chiamati a ragionare sul senso smarrito di bene comune, sulla grandezza del perdono, sull’Europa disorientata, sulla verità così spesso tradita da una comunicazione falsa e bugiarda, sull’istruzione che manca e sulla cultura aggredita dall’ignoranza come se si potesse tranquillamente scegliere fra l’una e l’altra quale più ci si addice.
Questo libro ci aiuta a vedere oltre l’immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso. Ci insegna a non avere paura, a non chiuderci nella comodità dei piccoli mondi chiusi che la globalizzazione paradossalmente costruisce instancabile, impedendoci di vedere gli altri se non sono esattamente uguali a noi. Questo diario ci dice di non arrenderci all’idea che l’unico destino che ci attende è quello di vivere senza vedere, come ciechi guidati da altri ciechi. Ci dice che non si combatte l’inciviltà diventando incivili, scambiando la difesa di sé con la negazione dell’altro; e l’umiliazione dell’altro con l’affermazione di sé. A me — a proposito di memoria e di come siamo tutti portati a credere il nostro mondo il migliore o il peggiore di tutti i tempi, a proposito della superbia che ci impedisce di vedere — la lettura delle riflessioni di don Nunzio ha fatto tornare in mente un detto del primo dei padri del deserto, Antonio il Grande: «Vidi tutte le reti del maligno distese sulla terra e dissi gemendo: “Chi mai potrà scamparne”. E udii una voce che mi disse: “L’umiltà”». Ecco, solo la memoria, il ricordo, l’incontro ci insegnano a essere umili. E solo l’umiltà ci restituisce la capacità di vedere, di interrogarci, di stupirci, e di rialzarci.
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