Il fascino senza tempo dello Studio del Mosaico Vaticano
Paolo Ondarza - Città del Vaticano
Si ha l’impressione di entrare in un’antica bottega d’arte quando si varca la soglia d’ingresso dello Studio del Mosaico Vaticano, nelle adiacenze della Domus Sanctae Marthae.
Silenzio e raccoglimento
Il tempo sembra essersi fermato, lontano dai ritmi concitati della quotidianità. Ciò che più colpisce è il silenzio, necessario per favorire la concentrazione della piccola comunità di lavoro composta da dodici mosaicisti professionisti. Una quiete interrotta solo dal picchiettare della martellina, dallo scivolare delle tessere tra le dita dei mosaicisti o dal suono sordo della fiamma che nella fornace scioglie gli smalti. E’ per tutelare questo clima di raccoglimento, oltre che per l’esiguità degli spazi degli ambienti del laboratorio, che le visite di esterni allo Studio sono un’eccezione alla regola.
Le ventisettemila tessere colorate
Emozionante percorrere il lungo corridoio scandito, come in un’antica farmacia, da novemila cassetti numerati contenenti in tutto ventisettemila “munizioni”, così chiamano il campionario di gradazioni di colore delle tessere a disposizione degli artisti vaticani. Sorprendente imbattersi in oggetti appartenenti ormai all’antica tradizione dell’arte musiva, come come i grossi chiodi un tempo utilizzati per fissare le opere al muro.
I mosaici della Basilica di San Pietro
Il sapere accumulato nel tempo qui è stato trasmesso di generazione in generazione. Ne sono custodi i mosaicisti, guidati oggi dal direttore Paolo Di Buono. Sono gli eredi di una tradizione che, iniziata nel XVI secolo, durante il pontificato di Gregorio XIII, portò la Basilica Vaticana ad essere il più grande laboratorio d’Europa nella pratica del mosaico. Fu infatti Papa Boncompagni nel 1578 a decidere di decorare a mosaico la Cappella Gregoriana, a lui intitolata, all’interno della Basilica. La scelta fu motivata dalla duplice esigenza di ricollegarsi all’antica pratica musiva paleocristiana e di utilizzare una tecnica resistente al passare del tempo. A questa prima impresa seguìrono venti anni dopo le decorazioni della maestosa cupola michelangiolesca, su cartoni realizzati dal Cavalier D’Arpino; quindi arrivò il turno di tutte le altre cupole di San Pietro.
Quando il mosaico eguaglia la pittura
Terminata con successo questa prima fase, lo Studio dovette presto affrontare una nuova sfida: la trasposizione a mosaico nel Seicento di tutte le pale d’altare presenti nella Basilica Vaticana che, soggette all’umidità, rischiavano di deteriorarsi e quindi necessitavano di essere riparate in luoghi più idonei alla loro conservazione. L’obbiettivo era arduo: si trattava di competere, attraverso la tecnica del mosaico, con la liquidità della pittura di Raffaello, Guercino, Domenichino, Poussin, Guido Reni . In questa occasione, racconta Paolo Di Buono, si raggiunse un altissimo livello tecnico e tecnologico. Le pale d’altare infatti sono mosaici di circa 30 mq, realizzati su pesanti basi di pietra”. Il grande progresso scientifico si ebbe nell’ottenere le più disparate sfumature di colore: se infatti nelle cupole gli incarnati erano stati riprodotti ricorrendo a smalti vetrosi o a pietre naturali, la sfida della riproduzione delle pale d’altare richiedeva un’ulteriore salto di qualità. Il risultato fu sorprendente ed oggi è sotto gli occhi di tutti coloro che ammirano in San Pietro gli alti risultati cromatici e luministici raggiunti. “
Sfumature e gradazioni
Il culmine di questa ricerca – prosegue Di Buono - si ebbe a metà Settecento quando il chimico Alessio Mattioli elaborò una formula per ottenere le gradazioni di colore delle carnagioni, producendo la “scorzetta”, un tipo di smalto opaco. Tale prodigiosa invenzione fu dirompente nella sua bellezza e caratterizzò l’intera la produzione del XVIII secolo, consentendo ai mosaicisti di riprodurre dipinti estremamente complessi”.
Il mosaico minuto
L’istituzione ufficiale dello Studio, sotto la Fabbrica di San Pietro, avvenne nel 1727 sotto Benedetto XIII. A quest’epoca va ricondotta l’introduzione tra le maestranze vaticane della pratica del mosaico minuto, grazie alla riscoperta dell’antica pratica del mosaico filato. Quest’ultima prevede che le tessere non vengano ottenute con il cosiddetto “sistema romano” della martellina e del tagliolo, ma che siano ricavate da bacchette sottilissime, “create” dalla fusione a fuoco di smalti vitrei.
La fornace e gli smalti filati
Se per i mosaicisti vaticani è mestiere di ogni giorno riprodurre alla fornace varie tonalità di colori, per chi assiste per la prima volta alla trasformazione di un magma incandescente in tessere musive dai colori più disparati, lo spettacolo è difficilmente descrivibile. “La tecnica del filato – spiega Paolo Di Buono - divenne utilissima a fine Settecento quando la decorazione della Basilica era finita. Allora la scelta intelligente dei superiori della Fabbrica fu quella di trasformare l’attività dello Studio da struttura specializzata in “opere in grande” a laboratorio e centro di produzione di opere minute”.
La diplomazia del mosaico: i doni del Papa
Si tratta dei manufatti finalizzati alla vendita a clienti privati esterni o utilizzati dai Papi come doni in occasioni diplomatiche e viaggi apostolici. Dallo splendido mosaico donato ad inizio Ottocento da Leone XII a Carlo X, re di Francia, fino a quello recentissimo raffigurante la benedizione papale in Piazza San Pietro offerto da Papa Francesco al Re Rama X durante il suo viaggio in Thailandia. E’ un aspetto dell’attività di cui lo Studio va particolarmente fiero perché – commenta Di Buono - “nella nostra attività ordinaria ci rendiamo conto di realizzare degli oggetti straordinari: se da una parte il nostro lavoro è una ripetizione di tecniche e procedure secolari, dall’altra in questi casi siamo coscienti dell’unicità ed eccezionalità di ciò che produciamo”.
L'incendio di San Paolo e il ritorno all'attività "in grande"
Proprio quando l’attività “in grande” sembrava un ricordo del passato, nell’Ottocento un avvenimento sconvolge la cristianità: la Basilica di San Paolo fuori le mura sulla via Ostiense è distrutta da un incendio divampato al suo interno. Allo Studio del Mosaico Vaticano, Leone XII chiede di contribuire alla ricostruzione del tempio intitolato all’Apostolo delle genti. Sono di quest’epoca i primi tondi con i ritratti dei pontefici: una tradizione che continua ancora oggi. “Questa decisione – racconta il direttore - ha permesso la trasmissione della tecnica antica del mosaico intagliato”.
I tondi dei Papi
Realizzare un ritratto a mosaico in grandi dimensioni, - i tondi misurano 130 cm di diametro – è un procedimento molto complesso, reso ancor più delicato dall’esiguità di tempo a disposizione per realizzare tali opere: devono essere pronte entro un arco di tempo non troppo distante dal giorno dell’elezione del Papa. La realizzazione di un mosaico prevede invece un lungo periodo di esecuzione. “Sia nel caso di Benedetto XVI che in quello di Francesco è stato svolto un “lavoro di squadra”: “un mosaicista – racconta Paolo Di Buono - ha realizzato il volto, un altro il panneggio e una terza persona lo sfondo”.
I segreti di bottega
Chissà quante maestranze si saranno alternate tra i mosaicisti vaticani e quanti saperi si saranno avvicendati nei secoli. E’ questa una riflessione che accompagna tutta la nostra visita allo Studio del Mosaico Vaticano. Prima di congedarci chiediamo al direttore di svelarci qualche “segreto” del mestiere custodito dai mosaicisti vaticani. “Un segreto – confida – è sicuramente la ricetta del mastice con cui fissiamo le tessere: si tratta di uno stucco che ha peculiarità uniche. La sua composizione a base di olio di lino infatti permette un essiccamento lento e questo consente a chi lavora di poter correggere eventuali errori in fase d’opera. Inoltre esso è un materiale che richiede specifiche condizioni meteorologiche e di umidità. La formula non è completamente segreta, ma solo qui in Vaticano si conoscono le esatte percentuali di ingredienti da mescolare. La preparazione è talmente articolata che, persino noi che siamo abituati a produrlo, spesso incappiamo in errori”. Anche questo è il fascino di un mestiere che, pur evocando le procedure descritte in lingua volgare all’inizio del XV secolo nel Libro d’Arte di Cennino Cennini, resiste allo scorrere del tempo, rimanendo profondamente attuale.
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