In libreria l’ultimo saggio di Catananti: “Il Vaticano nella tormenta”, 1940-1944
Giada Aquilino - Città del Vaticano
Sono di “speciale rilevanza”, perché “assolutamente sconosciuti sino ad oggi”, i piani di difesa “dei confini del Vaticano e della stessa persona” di Pio XII tra il 1940 e il 1944, predisposti dall’allora Gendarmeria Pontificia a fronte del rischio che “elementi facinorosi” volessero rapire il Papa stesso. È quanto si legge nel saggio di Cesare Catananti: “Il Vaticano nella tormenta”, in libreria per i tipi delle Edizioni San Paolo. Con la prefazione dello storico Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Catananti, medico, già direttore generale del Policlinico Gemelli di Roma e studioso di Storia contemporanea, ripercorre il Pontificato di Papa Eugenio Pacelli, calandosi nel cuore della Seconda Guerra Mondiale attraverso le carte dell’epoca custodite oggi dalla Gendarmeria Vaticana.
Alla vigilia dell’apertura degli Archivi Vaticani su Pio XII, in programma il prossimo 2 marzo, l’autore confronta il materiale anche con gli atti della Santa Sede sulla Seconda Guerra Mondiale e, tra gli altri, gli archivi di Londra, della Farnesina, dello Stato italiano, oltre a testimonianza dirette.
Professor Catananti, lei ha titolato: “Il Vaticano nella tormenta”. Perché? Che anni furono quelli tra il 1940 e il 1944?
R. - Furono gli anni della guerra, dell’occupazione nazista, dal settembre del ‘43 al giugno del ’44, in cui il Vaticano confinava proprio con il Terzo Reich, quindi una vera ‘tormenta’ con venti di varia provenienza che si abbatterono in quegli anni sul Colle Vaticano.
Nella prefazione di Riccardi, si parla di un Vaticano “ostaggio” in quegli anni del regime fascista e, soprattutto nei mesi dell’occupazione, dei nazisti: cosa significa in concreto?
R. - Il Vaticano in effetti era già una enclave dentro Roma. Tutto, dall’energia alle comunicazioni, dipendeva dall’Italia, che ‘circondava’ di fatto il Vaticano. Ma in quegli anni, con lo scoppio della guerra, i dubbi che l’Italia aveva forte erano quelli che dentro il Vaticano ci fossero attività di spionaggio da parte delle legazioni straniere, inglesi e americane in maniera particolare, che erano state ospitate appunto dentro il Vaticano, che quindi era sotto un doppio controllo: italiano e tedesco.
In che modo?
R. - In Vaticano c’erano spie naziste, italiane. Si assisteva a una polemica continua - almeno fino al luglio ’43 - tra Italia e Santa Sede. Poi quegli ultimi nove mesi si vissero con il continuo terrore che il Vaticano potesse essere invaso e il Papa addirittura rapito, questo era il piano di Hitler.
Lei indica come di “speciale rilevanza” i piani di difesa dei confini del Vaticano e dello stesso Pontefice predisposti dalla Gendarmeria a fronte del rischio che “elementi facinorosi” volessero rapire Pio XII: a cosa ci si riferisce e in cosa consistevano questi piani? Andrea Riccardi specifica come sia “provato” il progetto di Hitler di rapire il Papa…
R. - Se si leggono i diari di Goebbels, già il 26 luglio, subito dopo la caduta del fascismo, Goebbels riferisce di un incontro con Hitler: il Führer decide che dietro la caduta di Mussolini c’è il Vaticano, si pensa a invadere il Vaticano, a rapire il Papa. E in effetti che Hitler avesse voglia da tempo di invadere il Vaticano e sequestrare il Papa è storia ben documentata. Il comandante supremo delle SS in Italia, Wolff, aveva dichiarato con una testimonianza giurata che Hitler aveva chiesto di predisporre un piano per invadere il Vaticano e sequestrare il Papa. I piani erano non tanto di un esercito che voleva invadere, ma di gruppi che in qualche modo sarebbero penetrati in Vaticano, poi sarebbero intervenuti in teoria i tedeschi e avrebbero protetto e portato via il Papa. Che questo fosse un rischio concreto e non solo teorico lo dimostrano le carte trovate nell’Archivio della Gendarmeria. C’era un piano predisposto dalla Gendarmeria per tutti i livelli di difesa a fronte di eventuali elementi facinorosi. Il comandante della Gendarmeria, il commendator Soleti, pensava a progressivi arretramenti fino al Palazzo Apostolico, dopodiché - disse - “difenderemo col nostro corpo l’augusta persona del Papa fino alla morte”.
Quindi il piano di difesa in cosa consisteva?
R. - Il piano di difesa consisteva in una serie di rafforzamenti dei varchi considerati più deboli, Sant'Anna, l'Arco delle Campane, con tutta una serie di indicazioni pratiche. Per esempio non potevano essere usate le armi, perché la Segreteria di Stato non voleva. Tant’è vero che nei documenti c’è scritto: “Bisogna esercitare una resistenza passiva ma energica”, quindi si pensò agli idranti dei Vigili del Fuoco. Dunque tutta una serie di manovre di difesa più che di attacco.
Come il Vaticano favorì la protezione dei prigionieri di guerra in fuga dai campi fascisti e nazisti?
R. - Questo è uno dei temi più interessanti su cui l’Archivio della Gendarmeria racconta cose assolutamente nuove e inedite. I prigionieri che erano scappati soprattutto dopo l’8 settembre dai campi di prigionia - i militari alleati – avevano l’ordine da Londra di ricongiungersi con le loro truppe oppure di fuggire in Stati neutrali, in particolare Svizzera o Vaticano. La Santa Sede era combattuta tra due opposti doveri, il dovere della misericordia e il dovere di rispettare il Trattato del Laterano. Quindi la Segreteria di Stato si muoveva davvero sulla lama del rasoio, dando ospitalità a tutti questi militari, prima inglesi e americani, poi - dopo il giugno del ‘44 - anche ai disertori tedeschi, ospitandoli dentro la Gendarmeria.
Papa Francesco, annunciando l’ormai prossima apertura degli Archivi Vaticani per il Pontificato di Pio XII, ha ricordato i momenti di grave difficoltà per Papa Pacelli, che - ha detto - “per taluni poterono apparire reticenza”, per altri furono tentativi per tenere accesa “la fiammella delle iniziative umanitarie, della nascosta ma attiva diplomazia, della speranza in possibili buone aperture dei cuori”. Di questi tentativi c’è traccia nei documenti da lei presi in esame?
R. – Non è che la Segreteria di Stato o Giovanni Battista Montini - che poi diventerà Paolo VI e che dal 1937 era sostituto alla Segreteria di Stato - o l’irlandese mons. Hugh O’Flaherty potevano muoversi se Pio XII non era d’accordo. Un ruolo particolare in queste attività umanitarie di appoggio agli alleati lo svolse appunto mons. O’Flaherty, che Papa Pacelli – quando era segretario di Stato - aveva incaricato come suo referente nella Cecoslovacchia appena occupata dai nazisti. Pio XII parlava poco, ma soprattutto agiva, gli piaceva agire con la massima discrezione possibile, in supporto a tutti. Gli atti già pubblicati della Santa Sede dicono come alla fine fu difficile capire il numero di quanti erano stati rifugiati dentro il Vaticano, inimmaginabile pensare quanti poi fossero stati nascosti in tutte le chiese, in tutti i monasteri. Ed è evidente che quanto accadeva, accadeva con l’avallo di Pio XII.
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