Stella: servono parrocchie capaci di uscire e cercare i lontani
Fabio Colagrande – Città del Vaticano
Rinnovare le strutture parrocchiali riscoprendo la vocazione missionaria di ogni battezzato e superando al contempo l’idea di una pastorale parrocchiale limitata all’interno del territorio. Sono questi gli aspetti centrali dell’Istruzione “La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa”, redatta dalla Congregazione per il Clero e pubblicata il 20 luglio. Il documento sottolinea come oggi ci sia il rischio concreto che le parrocchie restino strutture organizzative burocratiche più attente a preservarsi che a evangelizzare e le invita a essere sempre più proiettate verso nuove forme di povertà. L’Istruzione vuole in particolare mettersi al servizio di alcune scelte pastorali già avviate e sperimentate per contribuire a valutarle e orientarle in un contesto più universale, come conferma il cardinale Beniamino Stella, prefetto della Congregazione per il Clero:
R. – Da una parte, soprattutto nel cosiddetto mondo “occidentale”, c’è la scarsezza dei sacerdoti che ormai è un aspetto obiettivo. Ma c’è anche, poi, il fatto che sono mutati i confini delle parrocchie: si sono in qualche modo “dileguati”. Oggi ci sono altre esigenze: c’è una mobilità più accentuata. Tutto ciò ci ha fatto capire che occorre guardare oltre, al di là dell’idea della parrocchia tradizionale. Oggi la gente si sposta, frequenta la chiesa del luogo dove si trova. Molti progetti di riforma delle comunità parrocchiali e ristrutturazioni diocesane sono quindi già in atto. È necessario però che la norma ecclesiastica, che dovrebbe regolare queste ristrutturazioni, tenga presente l’ambito canonico della Chiesa, che ha ambiti universali. È necessario che queste riforme non siano dettate solo dal gusto – direi quasi “dal capriccio” – di competenti e di esperti. Occorre che obbediscano alle nuove esigenze, ma anche che tengano conto di una prospettiva più ampia, che si guardi alla Chiesa nella sua universalità.
Perché la Chiesa avverte questa necessità di rinnovare le strutture parrocchiali in chiave missionaria?
R. – Non siamo ingaggiati in un’azienda, ma apparteniamo a una comunità, a una famiglia. Questa nostra fede, che significa adesione, che significa incontro, che significa adorazione del volto di Dio, ci deve portare necessariamente a guardare al di là delle nostre esigenze personali e familiari, a sentire che il nostro ambito di azione è l’umanità, ma un’umanità più ampia del nostro giardino di casa, dei nostri confini. Essere missionari significa un po’ dimenticare il paesello, dimenticare la famiglia, dimenticare soprattutto i propri comodi e, a partire dalla bellezza della fede e dalla gioia del Vangelo, sentire che apparteniamo al Signore e quindi condividere il nostro tesoro con chi non ce l’ha, con chi ha perduto il senso del suo valore, con chi ha bisogno di tornare a incontrare il Signore, a sentire la sua presenza nella propria vita.
L’Istruzione chiede anche di superare l’idea di una pastorale parrocchiale limitata, all’interno del suo territorio, e auspica una “pastorale d’insieme”, caratterizzata da un “dinamismo in uscita”. Cosa significa, in concreto?
R. – Significa che se noi sentiamo che la nostra fede è una fede da annunciare, da proporre, non ci sono solamente le canoniche, i muri delle chiese, ma c’è la gente che ha bisogno di questa fede. La parrocchia forse è stata sentita finora quasi come un palazzo, un castello da custodire, da proteggere … Mi sembra che dobbiamo togliere le chiavi, aprire le porte, areare l’ambiente e andare fuori. Ecco, questo dinamismo in uscita, di cui parla tante volte il Papa, significa guardare lontano, vedere chi ha bisogno della fede: tutto il mondo giovanile, tutto il mondo di chi ha bisogno di Dio ma non sa quale strada imboccare. La parrocchia dovrebbe essere una struttura in ricerca. I sacerdoti, i diaconi, i consacrati, devono sapere uscire, stare fuori. Il Papa parla spesso dello “stare con”: questo significa saper dedicare tempo, scoprire le ricchezze, talvolta, delle persone, delle famiglie proprio vivendo insieme. È un grande sacrificio perché tutti noi amiamo le consuetudini, il nostro habitat che ci rende tranquilli, sereni, comodi. Ma non è questa la dinamica della fede. C’è anche poi la necessità della cooperazione tra le parrocchie, del coordinamento degli orari. Tutto questo ci porta a sentire la parrocchia come una “vita delle comunità”, una “vita della grande famiglia”. E quindi il sacerdote deve essere la guida di questa processione in uscita: deve aiutare i propri collaboratori, aiutare le famiglie a “stare fuori”, a cercare chi è lontano e attendere solo un cenno, una parola, un invito per essere coinvolto in questo cammino di fede che dà anche gioia, serenità e a sua volta proiezione missionaria.
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