Il Concilio di Albino Luciani
ANDREA TORNIELLI
La sera di 42 anni fa si affacciava sorridente dalla Loggia centrale della Basilica di San Pietro il successore di Papa Paolo VI. Albino Luciani, patriarca di Venezia, il 26 agosto 1978 venne eletto al quarto scrutinio assumendo il doppio nome di Giovanni Paolo, in ossequio ai suoi immediati predecessori, Roncalli e Montini. Il primo l’aveva voluto vescovo di Vittorio Veneto includendolo così tra i padri del Concilio, il secondo l’aveva trasferito a Venezia e creato cardinale. Quella calda sera d’estate nessuno poteva immaginare che il pontificato di Giovanni Paolo I, mite e umile pastore veneto con origini montanare, sarebbe stato tra i più brevi della storia. Quarantadue anni dopo quell’evento, in un tempo in cui il Concilio Ecumenico Vaticano II è oggetto di attacchi e di critiche, è significativo ricordare Luciani attraverso alcune sue parole scritte quando era vescovo e padre conciliare, per spiegare ai fedeli della sua diocesi ciò che stava accadendo a Roma.
Contro il diffuso pessimismo
Nella fase preparatoria Luciani non fa mancare il suo parere scritto. Nel suo voto il vescovo di Vittorio Veneto auspica che il futuro Concilio metta in luce “l’ottimismo cristiano” insito nell’insegnamento del Risorto, contro “il diffuso pessimismo” della cultura relativistica, denunciando una sostanziale ignoranza delle “cose elementari della fede”. Luciani parte per Roma, partecipa alle sessioni del Concilio, ascolta con attenzione i dibattiti. Non prende mai la parola ma scrive pagine e pagine di appunti. Rilegge Antonio Rosmini, studia a fondo molti teologi, tra i quali Henri de Lubac e Hans Urs von Balthasar. Scrive spesso ai fedeli della sua diocesi, li tiene aggiornati sui risultati del Concilio e spiega argomenti delicati con il consueto stile didascalico e catechistico, evitando però, allo stesso tempo, le semplificazioni eccessive. Il vescovo Luciani indica subito quello che ai suoi occhi sarà l’attore principale del Concilio: “Lo Spirito Santo, presente ai lavori colla sua assistenza a impedire errori e deviazioni dottrinali”. Un’assistenza, scrive, che andrà ai membri del Concilio collettivamente come a “capi-Chiesa, non come a uomini singoli” che “rimarranno uomini col loro temperamento”.
Un’esperienza di Chiesa universale
In un messaggio per la giornata missionaria, datato 14 ottobre 1963, Luciani informa i suoi diocesani che sta toccando le missioni nelle persone dei vescovi convenuti da ogni parte del mondo. E infatti scrive: “Nell’aula conciliare, basta ch’io alzi gli occhi sulle gradinate che mi stanno davanti. Son là: le barbe dei vescovi missionari, le facce nere degli africani, gli zigomi sporgenti degli asiatici. E basta ch’io scambi con essi qualche parola; s’aprono davanti visioni e bisogni, di cui, da noi, non s’ha neppur l’idea”. Conclusosi il primo periodo conciliare, Luciani ritorna a casa insieme al suo “vicino di banco”, Charles Msakila, vescovo di Karema (Tanganika), suo ospite per alcuni giorni: un gesto di attenzione, ma anche un modo per far respirare alla diocesi la dimensione dell’universalità della Chiesa. L’impeto missionario emerge anche dalle parole che il vescovo di Vittorio Veneto dedica a Papa Giovanni, celebrando nel giugno 1963 una messa di suffragio per il Pontefice appena defunto. “L’idea di Papa Giovanni, che più ha colpito il mio spirito, è questa: Ecclesia Christi lumen gentium! La Chiesa deve far chiaro non solo ai cattolici, ma a tutti; essa è di tutti, bisogna cercare di avvicinarla a tutti”.
Riforma liturgica
Due assaggi, dagli scritti del vescovo Luciani, per comprendere come il futuro Papa guardasse ad alcuni dei temi cruciali del Concilio. Il primo riguarda la liturgia. “Durante la prima sessione del Concilio - scrive Luciani - il grande problema, circa la Messa, è stato: quali aiuti offrire ai fedeli, perché ricavino il massimo frutto possibile da questo, che è ‘il punto culminante della vita cristiana?’. Un primo aiuto, è stato detto, venga dalla Bibbia. La Bibbia è parola di Dio; è straordinaria nel creare un clima di giusta e fervida religiosità... La lettura dell’epistola e del Vangelo sia fatta direttamente in italiano, quando alla Messa assistono i fedeli, e sia messa più in risalto… Un secondo aiuto è l’uso della lingua italiana. Alla prima sessione del Concilio ben 81 vescovi hanno chiesto per la liturgia l’uso della lingua materna. Altri vescovi erano timorosi... Altri fecero notare che la Chiesa, in passato, ha più volte cambiato lingua, adattandosi alla lingua del popolo. Gesù stesso parlò e pregò non in ebraico, lingua nazionale della Palestina, ma in aramaico, lingua del popolo... Un terzo aiuto consiste nel semplificare i riti della Messa. Per essere sinceri, alcuni riti, nel corso dei secoli, si sono accavallati, altri non sono capiti dal popolo di oggi, altri, per essere capiti, richiedono complicate spiegazioni. Un rito - s’è detto al Concilio - non dev’essere una cosa, su cui parlare e spiegare, ma una cosa che parla e spiega di per sé; in ogni caso, non imponiamo ai fedeli inutili difficoltà!... Un quarto aiuto consiste nel promuovere e rendere facile la partecipazione dei fedeli”.
Libertà religiosa
Uno degli argomenti più delicati e complessi affrontato dal Concilio fu quello della libertà religiosa. Per Luciani fu un cambiamento significativo rispetto agli insegnamenti del seminario. Ecco come il vescovo di Vittorio Veneto spiega quel momento: «Tutti siamo d’accordo che c’è una sola vera religione... Ma, detto questo, ci sono anche altre cose che sono giuste e bisogna dirle. Cioè, chi non è convinto dal cattolicesimo ha il diritto di professare la sua religione per più motivi. Il diritto naturale dice che ciascuno ha il diritto di cercare la verità. Ora guardate che la verità, specialmente religiosa, non si può cercarla chiudendosi in una stanza e leggendo qualche libro. La si cerca seriamente parlando con gli altri, consultandosi... Non abbiate paura di dare uno schiaffo alla verità quando date a una persona il diritto di usare della sua libertà”.
Rispettare i diritti dei non cattolici
Scrive ancora il vescovo Luciani: “Se uno ha coscienza che quella è la sua religione ha il diritto di tenersela, di manifestarla e di farne propaganda. Si deve giudicare buona la propria religione, ma anche quella degli altri. La scelta della religione deve essere libera; quanto più è libera e convinta, tanto più chi l’abbraccia se ne sente onorato. Questi sono i diritti, i diritti naturali. Ora, non c’è un diritto al quale non corrisponda anche un dovere. I non cattolici hanno il diritto di professare la loro religione, e io ho il dovere di rispettare il loro diritto: io privato, io prete, io vescovo, io Stato”.
Fate meglio il catechismo
Infine, negli scritti di Luciani padre conciliare si ritrovano anche queste parole di notevole attualità nel rapporto con i credenti di altre fedi. Nonostante siano state scritte 56 anni fa, colgono ancora nel segno e appaiono in sintonia con la frase di Benedetto XVI frequentemente citata dal suo successore Francesco: “La Chiesa non cresce per proselitismo ma per attrazione”. E dunque di fronte alla presenza delle altre fedi religiose, non sono certo i divieti a professarle o l’arroccamento difensivo a mantenere in vita il cristianesimo. La fede cristiana esiste e si diffonde se ci sono cristiani che la vivono e la testimoniano attraverso la loro vita. “Qualche vescovo - scrive Albino Luciani - si è spaventato: ma allora domani vengono i buddisti e fanno la loro propaganda a Roma, vengono a convertire l’Italia. Oppure ci sono quattromila musulmani a Roma: hanno diritto di costruirsi una moschea. Non c’è niente da dire: bisogna lasciarli fare. Se volete che i vostri figli non si facciano buddisti o non diventino musulmani, dovete fare meglio il catechismo, fare in modo che siano veramente convinti della loro religione cattolica”.
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