Nigeria, il nunzio: la violenza nel Paese non è solo di matrice religiosa
Bernadette Reis e Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano
Dallo scorso gennaio, nelle aree rurali del centro e del nordovest della Nigeria, sono state uccise oltre 1.200 persone, vittime di attacchi e rapimenti da parte dei gruppi armati. Un dramma denunciato da varie organizzazioni come Amnesty International e il Comitato internazionale della Croce Rossa, che di recente ha notato come delle 40 mila persone che ad oggi risultano scomparse in Africa, la metà sia sparita nella sola regione del nordest della Nigeria, teatro di attacchi e rapimenti da parte dei jihadisti di Boko Haram.
Nel dopo Angelus del 15 agosto scorso, Papa Francesco aveva ricordato la sofferenza “della popolazione della regione settentrionale della Nigeria, vittima di violenze e attacchi terroristici”. Anche i vescovi del Paese, per voce del presidente della Conferenza episcopale, monsignor Augustine Obiora Akubeze, si sono rivolti al governo e allo stesso popolo nigeriano per chiedere la fine delle uccisioni e l’attuazione della lotta alla corruzione.
A parlare dei violenti attacchi è stato anche il nunzio apostolico in Nigeria, mons. Antonio Filipazzi, che analizza il quadro di instabilità interno e chiede al governo di tutelare le persone senza distinzione di etnia o di religione "perché le vittime sono tutte uguali".
R. – La questione della violenza in Nigeria è una questione molteplice, nel senso che non esiste soltanto la violenza causata, ad esempio, dal terrorismo o da certe bande armate. Ci sono altri focolai di violenza causati da scontri locali, etnici, c'è la violenza che è causata, ad esempio, da questo stillicidio di rapimenti a scopo di estorsione, ci sono fenomeni di violenza nella zona dell’oceano, dove i pirati mettono in pericolo la sicurezza delle navi. Insomma, ci sono tante cause di violenza, alcune sono un po' dimenticate, altre sono un po' di più all'ordine del giorno. A mio avviso, quello che il governo deve fare è operare per il rispetto della legalità, il rispetto della legge, deve proteggere la vita e i beni dei cittadini, senza distinzione fra coloro di un’etnia o di un'altra, di una religione o di un'altra. Il pericolo è fare una distinzione fra le vittime, ci si occupa delle vittime di un gruppo, ma non di quelle dell'altro. Le vittime sono tutte uguali e lo Stato deve proteggere tutte le vite, tutti i cittadini, tutte le loro proprietà e le loro attività quotidiane.
Lei cita le religioni, alcuni hanno indicato come la Nigeria sia profondamente divisa dalla religione. E’ questa è una interpretazione corretta?
R. – La cosa oggettiva è che sicuramente i musulmani sono maggioritari al nord e cristiani sono maggioritari al sud, ma il discorso circa la divisione, proprio in nome della religione, deve essere molto prudente, perché in passato, così come anche oggi, musulmani e cristiani hanno convissuto e convivono pacificamente. Posso raccontare un esempio che mi è stato detto la settimana scorsa. In una diocesi, il vescovo ha aperto una scuola in una città che è maggioritariamente islamica. Dato che i cittadini, gli abitanti di quella città, portavano i loro figli alle scuole cattoliche di un altro centro vicino, allora ha voluto venire incontro a loro, ecco, quindi, che in certe zone c'è una convivenza pacifica. Io dico sempre che i cristiani e i musulmani, in fondo, sono uniti dal fatto che entrambi danno delle vittime a questa violenza, ci sono vittime musulmane e vittime cristiane di questa violenza. L'importante è non rinfocolare questa divisione, non presentare i conflitti come se siano esclusivamente causati dalla religione. La religione è uno dei fattori, ma c'è il fattore etnico, c'è il fattore economico, ci sono tanti fattori di queste violenza che sono presenti in percentuali diverse nelle diverse situazioni. Ma io temo sempre che quando si dice che un conflitto è religioso, in qualche modo, gli si dà una giustificazione morale, e questo rende ancora più difficile poi la soluzione, perché ciascuno pensa di essere nel giusto e nel bene perché lo fa in nome di Dio, in nome della religione.
Recentemente abbiamo sentito un appello dei vescovi nigeriani e poi la preghiera di Papa Francesco, nel post Angelus del 15 agosto. Inoltre ci sono state , eccellenza, le sue dichiarazioni della settimana scorsa. Questi appelli alla pace, alla preghiera, vengono accolti dal popolo?
R. – Sì, i vescovi nigeriani hanno indetto dal 22 agosto al primo ottobre, che è la festa nazionale, un periodo di preghiera per la pace in Nigeria L'intervento del Santo Padre, dopo l'Angelus del 15 agosto, ha dato tanta gioia, soprattutto ai vescovi, che si sono sentiti incoraggiati nella loro missione. Mi permetto di aggiungere che c'è stato un altro importante intervento da parte dei vescovi della Provincia ecclesiastica di Kaduna, che è la zona attualmente più esposta e più sofferente per la violenza. Forse a livello locale l'attenzione è maggiore, guardando un po' i media a livello nazionale mi sembra che la voce della Chiesa, la voce del Papa, vengano un po' smorzate. Però questo non ci sottrae al dovere di parlare e di chiedere che si superi questa fase di violenza.
Nello stato Kaduna è accettata la Chiesa? Quale ruolo può svolgere la Chiesa in collaborazione con lo Stato per riportare il Paese alla pace?
R. – Certamente nella zona di sud di Kaduna i cristiani, che in quella zona sono particolarmente numerosi, hanno dovuto piangere molte vittime, hanno dovuto lamentare sofferenze perché sono stati colpiti, cacciati e vivono in uno stato di pericolo. La Chiesa, soprattutto attraverso i vescovi, è anzitutto vicina alla gente, infatti i vescovi della provincia si sono radunati nella diocesi di Kafanchan, una delle aree più coinvolte da questa violenza, hanno pregato e incontrato la gente e hanno anche pubblicato un documento a mio avviso molto corretto, molto ben fatto, e con delle indicazioni concrete, utili per superare la situazione. Essi hanno chiesto anzitutto alle autorità, sia a livello nazionale che a livello dello stato di Kaduna, di essere più vicini, più concretamente vicini alla popolazione, e poi si sono rivolti ai giovani, perché i giovani, in questa situazione, sono tentati di entrare nella spirale della violenza e non ascoltano più i genitori, non ascoltano più la Chiesa, non ascoltano più gli anziani del villaggio e si abbandonano alla violenza per respingere la violenza e questo può creare una spirale pericolosa. Quindi, si sono rivolti anzitutto ai giovani esortandoli a preparare invece un futuro diverso. E poi una parola è stata detta anche ai media, per ringraziarli certamente per quello che fanno, ma anche per metterli in guardia dal diffondere notizie imprecise o non vere, che talvolta sono la causa di nuove violenze, perché sentendo quello che viene riferito la gente reagisce a queste notizie non fondate, aumentando così la violenza. Da quanto mi risulta, questo messaggio dei vescovi della Provincia di Kaduna è stato accolto con attenzione. Alcuni hanno capito che la Chiesa è un interlocutore che vuole lavorare con tutti per costruire la pace, per riportare la pace, e poi un segno positivo è che certamente sono aumentate le presenze delle forze di sicurezza per impedire la violenza. Quindi, diciamo che in questi ultimi giorni c’è stato questo positivo sviluppo della situazione, penso anche perché la Chiesa ha fatto sentire la sua voce e la sua voce è apprezzata. Anche perché la Chiesa ha ripetuto, anche in questa occasione, che non parla solo per i suoi cristiani, parla per tutta la popolazione, perché a parte la zona più cristiana, che è a sud di Kaduna, sono coinvolte tutte le diocesi della Provincia, molte delle quali vivono in un ambiente che è maggioritariamente musulmano e in questo ambiente, in questo territorio maggioritariamente musulmano, pure ci sono violenze e sofferenze che non vanno dimenticate. Ancora una volta non dobbiamo dividere le vittime secondo categorie, se sono vittime sono tutte vittime.
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