Il cardinale Van Thuan: uomo di speranza, testimone della Croce
Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano
Un uomo che anche dalla Croce e dalla solitudine del carcere “ha sempre saputo trasmettere speranza al fratello” e sapeva che anche lì il Signore “lo chiamava ad essere testimone della fede”, così “ha evangelizzato, ha fatto amicizia, ha cantato, ha insegnato, ha cercato sempre di essere fedele alla chiamata ad essere sacerdote”. Così descrive il cardinale Francois-Xavier Nguyen Van Thuan, scomparso il 16 settembre di 18 anni fa, il postulatore della causa di beatificazione Waldery Hilgeman.
Tredici anni in carcere, senza un giudizio
Il cardinale vietnamita, morto a 74 anni a Roma, quando era da 4 presidente del Pontificio Consiglio “Giustizia e Pace”, ha passato 13 anni della sua vita nelle carceri del regime comunista, dal 1975 al 1988. Dopo essere stato per otto anni vescovo di Nhatrang, nel Vietnam centrale, il 23 aprile 1975, pochi giorni prima della caduta di Saigon, allora capitale del Vietnam del Sud, Paolo VI lo promuove arcivescovo coadiutore della stessa Saigon. Conclusa vittoriosamente la guerra, i comunisti del Vietnam del Nord, entrando a Saigon, dichiarano la nomina di Van Thuan “frutto di un complotto tra i Vaticano e gli imperialisti, per organizzare la lotta contro il regime comunista”, racconterà lo stesso arcivescovo nel libro “Cinque pani e due pesci”. E tre mesi dopo, il 15 agosto, lo arrestano.
L' amore verso i suoi persecutori, la messa dietro le sbarre
In prigione, realizza, con l’aiuto dei suoi carcerieri, la croce pettorale che porterà fino alla morte, simbolo dell’amicizia nata con loro: dei pezzetti di legno e una catenella di ferro. Appena arrestato, si fa mandare, con vestiti e dentifricio, una bottiglietta di vino per la messa con l’etichetta “medicina per lo stomaco” e alcune ostie nascoste in una fiaccola per l’umidità. In un’intervista del 2000, dopo aver predicato gli esercizi spirituali a san Giovanni Paolo II e alla curia, ci raccontò così un dialogo coi i suoi carcerieri. “Loro mi domandano spesso: ‘Lei ci ama?’. Io rispondo ‘Io vi amo’. ‘Ma siamo suoi nemici, l’abbiamo messa in prigione, per più di 10 anni, e senza giudizio, e lei ci ama?’, ‘Io vi amo’. ‘Ma perché?’. ‘Perché Gesù me lo ha insegnato, e se io, come cristiano, non vi amo, non sono degno di portare il nome di cristiano’. E loro mi hanno detto: ‘E’ molto bello, ma è molto difficile da capire’. Ma questa è la risposta: l’amore cristiano può vincere tutto”.
Celebrazione il 18 settembre a Santa Maria in Trastevere
Il cardinale Van Thuan, dichiarato venerabile da Papa Francesco il 4 maggio 2017, dopo che la fase diocesana della causa di beatificazione si era chiusa nel luglio 2013, è stato ricordato questa mattina alle 9.30, nella Basilica di Santa Maria in Trastevere, in una celebrazione eucaristica presieduta dal cardinale Kevin Farrell, prefetto del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, mentre a pronunciare l’omelia è stato il cardinale Peter Turkson, prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale. Ad animare la Messa il coro della Comunità vietnamita di Roma.
Hilgeman: un uomo felice, uno sguardo d'amore verso tutti
Abbiamo chiesto al postulatore della causa, l'avvocato Waldery Hilgeman, di parlarci del porporato vietnamita, della sua testimonianza, e dello stato della causa di beatificazione.
R. – Il cardinale Van Thuan era un uomo solare, una persona felice, realizzata e contenta della sua vocazione. Una persona sempre disponibile, nella semplicità, ad avere uno sguardo verso chiunque gli stesse accanto.
Forgiato dalla prova del carcere, è diventato testimone di speranza…
R. – La speranza è una delle virtù che più si addice al cardinale Van Thuan. È un termine ricorrente nei suoi scritti e nei suoi discorsi, e certamente la speranza per lui nasce da un profondo amore verso la Croce. Non puoi esserci speranza per un cristiano se non ancorata Cristo, appunto la Croce.
Lo scatto Van Thuan lo fa in carcere, quando decide di non vivere aspettando la fine della detenzione, ma di vivere il presente…
R. Fin dall’infanzia, Van Thuan è stato educato alla speranza cristiana. Certamente col passare degli anni e la crescita, prende una consapevolezza diversa, una maturità diversa. E’ evidente che nel periodo che lui ha trascorso in carcere, nella solitudine, è arrivato ad un colloquio più profondo con Dio e quindi ad una maturazione diversa.
Oggi qual è la testimonianza che porta il cardinale con la sua vita, e il col quale ha affrontato le sofferenze?
R. – Se penso all’esperienza che tutti abbiamo vissuto recentemente per via del coronavirus, penso che il cardinale Van Thuan abbia tanto da darci. Penso a Papa Francesco lì, in quella piazza vuota, con quel crocifisso sotto la pioggia… Van Thuan è una persona che dalla Croce, dalla solitudine, ha sempre saputo trasmettere la speranza al fratello. Lui stesso disse che non dobbiamo avere solo ed esclusivamente nella fede ma dobbiamo avere speranza anche nelle altre persone, nel senso che queste persone possono essere convertite da Dio e così cambiare il cuore e cambiare in bene. In un certo qual modo questo si allaccia anche al tema centrale del magistero di Papa Francesco, che nell’enciclica “Laudato si’” sulla cura della casa comune, ci invita un'ecologia integrale. Siamo tutti interconnessi, quindi noi fratelli non possiamo vivere senza l'altro. E Van Thuan era convinto di questo: per lui la speranza era anche il fratello, era essere trasmettere la fede al fratello, era essere con il fratello.
Fratelli erano anche i suoi carcerieri, ai quali diceva: “Vi amo perché Gesù me lo ha insegnato”. E così li ha convertiti…
R.- Van Thuan amava tutti. Non faceva distinzione tra persecutori e amici: erano tutti i figli di Dio che era chiamato ad amare. E l'ha fatto senza esitazione.
Era quindi un uomo, mite, attento all’altro, riflessivo. Però prima di finire in carcere, come vescovo, chi lo conosceva lo descriveva come una persona molto dinamica…
R.- Lo era. In qualsiasi posto nel quale si trovava, era lì che Dio lo chiamava per essere testimone della fede, per essere apostolo, quindi non ha potuto smettere di esserlo neanche nelle condizioni di massima limitazione della sua libertà come appunto il contesto della prigione. Anche lì, lui continuò la sua opera di sacerdote e di vescovo. Ha evangelizzato, ha fatto amicizia, ha cantato, ha insegnato, ha cercato sempre di essere fedele alla chiamata che aveva ricevuto da Dio ad essere sacerdote.
Davanti a tutte queste evidenze, che cosa manca per poterlo chiamare beato?
R. – Mancherebbe un miracolo. Noi riceviamo presso l'ufficio della postulazione diverse segnalazioni, che vengono tutte prese in considerazione, approfondite e passate anche ad esperti per pareri tecnici. Quindi tecnicamente mancherebbe il miracolo così come richiesto dalla Chiesa con le sue specifiche caratteristiche.
C’è stato un caso a Buenos Aires...
R. – I casi sono tanti, vanno da un continente all'altro. Purtroppo ad oggi non sono ancora stati segnalati casi che rispettino i criteri richiesti dalla Chiesa per essere riconosciuti come miracoli. Ma certamente sono segni che il cardinale intercede per i nostri bisogni.
Ultimo aggiornamento ore 10.00 del 18.09.2020
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