Siria e Iraq, cardinale Sandri: date ai giovani un futuro
Alessandro Di Bussolo e Antonella Palermo
Incontrarsi in modalità online per fare il punto sulla situazione assai problematica vissuta da diversi Paesi mediorientali, ancora in balìa di guerre e fughe forzate, è uno dei tasselli che vanno a comporre il percorso di avvicinamento al viaggio apostolico di Papa Francesco in Iraq nel marzo prossimo. Il cardinale Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, spiega le ragioni di quello che già si preanuncia un atto storico, altamente coraggioso, apripista di sentieri di dialogo e riconciliazione, e ne sottolinea il significato in particolare per chi ha pagato un duro prezzo anche in vite umane:
R. - Venerdì scorso il predicatore della Casa Pontificia, nella predica dell'Avvento, ci ha ricordato le parole del profeta Isaia: consolate, consolate il mio popolo. Per me questa visita del Papa significa un gesto enorme di consolazione per tutti questi Paesi e popoli che hanno sofferto - l'Iraq, in particolare - la guerra, la persecuzione e l'emigrazione, dover lasciare tutto, soprattutto la popolazione cristiana, ma anche di tutte le religioni e di tutte le confessioni. Le vittime hanno il comune denominatore dei figli di Dio che sono stati soppressi ingiustamente e crudelmente. Questo è veramente un gesto straordinario del Papa che voleva farlo già da tanto. Ricordo che nella riunione della Roaco (Riunione Opere Aiuto Chiese Orientali, ndr) del 2019 il Papa disse: voglio andare in Iraq. E già in quella occasione si aprirono tutte le speranze per questa visita, che porta consolazione, stimolo, incoraggiamento ai Pastori della Chiesa. Dobbiamo inchinarci di fronte ai Pastori che sono rimasti in loco nonostante tutte le difficoltà, nonostante tutte le minacce, gli attentati. Loro sono rimasti lì, sono stati l'esempio di buon Pastore che non fugge. Per tutti i sacerdoti, i religiosi, le religiose, in questo Paese così ricco di storia, a partire da Abramo, dalla Chiesa assira. Questo ha dimostrato la fermezza nella fede e nella tribolazione. Quindi, sarà un gesto di grande consolazione e forza che si estenderà a tutta la realtà sociale, civile, politica di questo Paese perché la consolazione che porta Gesù Cristo, che porta il Papa è per tutti. e soprattutto per quelli che soffrono. Sarà una specie di suono di campane per tutto il Medio Oriente dopo tante tribolazioni che ancora sussistono in Siria, in Libano. Il Papa darà loro l'incoraggiamento a essere in questo contesto uomini di comunione e testimoni dell'amore di Dio.
Lei è stato diverse volte in visita in Iraq. Verrà accolto con favore, anche dai musulmani, Papa Francesco?
R. - Penso di sì - e non solo per la persona di Papa Francesco, l'uomo disarmato che solo ha le armi dell'incontro, del sorriso, dell'andare verso quelli che hanno più bisogno - perché il Papa si presenta con una carta di identità importantissima: la Fratelli tutti e la Dichiarazione di Abu Dhabi sulla fraternità umana. Come possiamo voler costruire un mondo nuovo di giustizia, pace, di libertà, di rispetto dei diritti umani e della libertà religiosa, se non ci consideriamo fratelli, prescindendo dalla identità religiosa che bisogna mantenere con tutto l'impegno? Quando sono stato in Iraq nel 2019 con tutti i nostri delegati della Roaco per vedere le necessità sul posto, ho potuto apprezzare con quale dignità, rispetto e amore il governo iracheno, ma anche le autorità del Kurdistan e tutti i capi musulmani ci hanno ricevuto. Pensi, che la prima volta in cui sono andato in Iraq, quando sono arrivato a Kirquq - c'erano ancora tanti attentati - il Patriarca Sako, che allora era vescovo, la prima cosa che mi ha fatto fare è stata di visitare una moschea. Sono stato ricevuto dagli iman sciiti e sunniti, ho anche dovuto fare un discorso. Non ho dubbi che il corpo sociale dell'Iraq in tutte le sue componenti, riceverà il Papa con entusiasmo.
Nel suo intervento alla riunione sull'emergenza umanitaria nell'area tenutosi in Vaticano il 10 dicembre scorso, lei ha ricordato che la ferita dell'emigrazione riguarda soprattutto i giovani. Cosa fare per frenare questa emorragia?
R. - Si è detto molto chiaramente: è inutile che viviamo con queste sanzioni. Non si possono fare le case nuove. Come possono i giovani trovare lì la sicurezza per il futuro, per gli studi, la formazione di una famiglia? Date ai giovani un futuro. La Chiesa lo dà dal punto di vista della luce che è Gesù Cristo, ma ci devono essere le istanze, nazionali e internazionali, che favoriscano la permanenza. Sono meravigliosi i professionisti in tutti gli ambiti della scienza e della cultura.
Lei crede che una volta che riusciranno a rientrare, i cattolici potranno contribuire alla rinascita dei loro Paesi? Verrà data loro la possibilità di farlo, in una pacifica convivenza con i musulmani e le altre fedi?
R. - Io lo spero e me lo auguro. I cristiani che vogliono tornare devono trovare tutte le condizioni di sicurezza per una vita degna. Loro, che forse si sono sistemati attraverso altri familiari emigrati in occidente, dicano 'torniamo'. Ma è evidente che le difficoltà maggiori sono per chi rientra, non per chi va via. Chi rientra lo fa volontariamente. Non sarebbe un Paese di benessere se loro non potessero partecipare alla vita politica. Per questo insistiamo tanto nella Congregazione che dobbiamo dare a tanti giovani la possibilità di formarsi anche nella Dottrina sociale della Chiesa. I laici devono costruire il proprio Paese, la patria, non soltanto ricevere dai capi le indicazioni. Sei tu, cristiano, che dai un contributo, attraverso i principi del Vangelo, alla costruzione di questa società che tutti vogliamo ispirata da Gesù, dalla Fratelli tutti e dalla dignità dell'uomo e della donna, per si viva secondo le proprie credenze e la propria fede.
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