"Donne Chiesa Mondo", storia di una samaritana d'oggi
di Alessandra Buzzetti*
Iochebed ci riceve nel salotto. Ha ancora i bigodini in testa e nessuna fretta, perché finalmente si può riposare e dedicare la mattinata a farsi bella. Nella stanza accanto è un continuo andirivieni di persone. Tutti uomini, in fila per fare gli auguri di Pasqua al Sommo Sacerdote. Abed –El indossa un lungo abito grigio e un copricapo rosso, dal 2013 è la guida spirituale dei samaritani. E’ il suocero di Iochebed.
«Porto il nome della madre di Mosè, che significa Javè è gloria» ci dice con un certo orgoglio. Conosce l’ebraico, ma parla prevalentemente in arabo, come tutti gli altri abitanti di Kyriat Luza, villaggio nel cuore della Cisgiordania alle pendici del Monte Garizim, il monte sacro dei Samaritani. Un popolo dal glorioso passato biblico, che oggi conta poco più di 800 anime: 450 risiedono in questo villaggio, l’altra metà ad Holon, cittadina a sud di Tel Aviv. Si ritrovano insieme per le feste più importanti, che possono essere celebrate solo sul Monte Garizim, centro religioso di una comunità che coniuga la vita moderna con una fede arcaica. Usano la tv e internet, studiano nelle università israeliane, ma custodiscono riti e tradizioni millenarie.
«Sono stata promessa sposa al mio attuale marito quando avevo 14 anni, ma lui per altri dieci non mi ha rivolto neppure la parola – racconta Iochebed – fino a quando un giorno si è presentato con un cesto pieno di patate, chiedendomi se le volevo assaggiare. L’anno dopo ci siamo sposati e non abbiamo mai litigato in modo serio in 27 anni di matrimonio. Certo non è facile la vita di una donna samaritana, la nostra società grava per l’80 per cento sulle nostre spalle. Ho cresciuto 3 figli e da 15 anni lavoro nell’azienda di mio marito. Produciamo tahina, la nostra è una delle migliori salse al sesamo del Medioriente». Una azienda della famiglia Cohen, stirpe sacerdotale della tribù di Levi, confermata dalle analisi del Dna. I Cohen sono una delle quattro famiglie da cui è composta oggi la comunità.
La sinagoga del villaggio è un edificio modesto, si entra senza scarpe e si prega sul tappeto che copre il pavimento. Uomini insieme alle donne, se lo desiderano, perché le Samaritane sono esentate dall’obbligo della preghiera nel Tempio.
In una teca rettangolare è conservato il tesoro dei samaritani: l’autentica Torah scritta sulla pelle di un montone tredici anni dopo la morte di Mosè. Il Pentateuco è l’unico testo sacro ed è una delle quattro colonne della religione samaritana.
Un solo Dio, un solo profeta (Mosè), un solo libro sacro (la Torah), un solo luogo santo, il Monte Garizim. L’area archeologica del monte sacro oggi è un parco nazionale israeliano. Nel giorno della Pasqua samaritana il direttore è intento a sorvegliare le ragazzine del villaggio che, in abiti attillati di stile occidentale , sono impegnate a scattarsi decine di selfie. Anche da rocce un po' troppo scoscese. «I Samaritani hanno libero accesso al parco, vengono in pellegrinaggio a Pasqua e in occasione di due altre feste - ci racconta il direttore, Ilan Cohen , ebreo di Gerusalemme - I loro luoghi santi sono transennati in segno di rispetto».
Su questa montagna si sarebbero incontrati Adamo ed Eva, vi sarebbe approdato Noè dopo il diluvio universale e sarebbe anche il luogo del sacrificio di Isacco. Quello che gli scavi del secolo scorso hanno confermato, sono i resti del tempio costruito qui dai Samaritani, all’epoca di Alessandro Magno, in alternativa a quello di Gerusalemme. Una frattura col mondo ebraico che non si sarebbe più sanata. Dalla cima del monte si vedono le due cupole rosse della chiesa ortodossa di Nablus, che custodisce il pozzo di Giacobbe. Profondo 40 metri, di cui 8 ancora pieni di acqua, è il luogo, secondo la tradizione, dell’incontro di Gesù con la Samaritana. Con buona pace del politicamente corretto – i Samaritani erano nemici dei Giudei - e in piena violazione delle norme religiose. Un ebreo non avrebbe potuto né parlare né bere da una tazza resa impura dalle mani di una donna samaritana.
A duemila anni di distanza, in tema di impurità, le cose non sono troppo cambiate. «Continuiamo semplicemente a seguire quello che ci prescrive la Torah» afferma senza indugio Nashla, 48 anni, 5 figli, mentre chiacchiera con le amiche di fronte all’unico bar del villaggio. «Per sette giorni dopo l’inizio del ciclo mestruale, nessuno può toccarmi, neppure mio marito. Devo indossare abiti speciali e mangiare da piatti separati. Se tengo in braccio mio figlio, allora è impuro e devo fargli il bagno prima che possa toccare suo padre».
L’isolamento si prolunga per le puerpere: quaranta giorni quando si partorisce un figlio maschio e ottanta quando arriva una femmina. «Siamo una comunità e ci aiutiamo reciprocamente, certo non è facile. Lo si vede dal fatto che le più giovani non vogliono più di due figli» conclude Nashla, insegnante di inglese a Nablus, una delle principali città palestinesi a maggioranza musulmana. Quando, in epoca romana, si chiamava Sichem i Samaritani erano più di un milione. Nel corso della storia il numero è sceso drammaticamente, a causa di sanguinose ribellioni e conversioni forzate all’Islam. All’inizio del ventesimo secolo ne erano rimasti 150. Per assicurarsi la sopravvivenza, cominciarono a generare famiglie numerose, ma in una società dove non erano accettati i convertiti, la consanguineità creò problemi. I frequenti matrimoni tra cugini di primo grado aumentarono i rischi di malattie genetiche. Quando negli anni ’90 i Samaritani ottennero il passaporto israeliano ed ebbero accesso alle strutture sanitarie dello stato ebraico, iniziarono a verificare la compatibilità genetica prima di sposarsi. Più recente è il via libera ai matrimoni misti. Il Sommo Sacerdote, guida spirituale suprema e arbitro anche nelle questioni matrimoniali ha concesso il diritto agli uomini di sposare donne non samaritane, a condizione che si convertano.
«Noi possiamo scegliere chi sposare, ma deve essere un samaritano - ci dice Lubna, seduta in giardino nel suo sgargiante abito di seta rosso accanto al marito intento a fumare il narghilè - Lo accettiamo? Non rispondo né di no né di sì, certo il problema che noi donne samaritane siamo poche è un problema reale».
Le prime ad essere accolte sono state ebree israeliane, già familiari con i dettami della Torah, più difficile è l’integrazione per chi arriva dall’estero da tradizione cristiana. Oggi sono una quindicina. Alla è stata una delle pioniere. Ucraina, ha attraversato il Mar Nero per stabilirsi sul Monte Garizim. Ha superato il periodo di prova ed è stata accettata dalla comunità. «L’impatto è stato duro – ammette - ma mi ha aiutato la gente. Aperta e calorosa». Con l’arabo e l’ebraico ha imparato anche a cucinare seguendo scrupolosamente le regole religiose. La settimana prima di Pasqua è tutto ancora più faticoso, perché , oltre al pane e alla carne, non si può mangiare nulla che non sia prodotto in casa.
Il banchetto pasquale riporta la storia al primo secolo dopo Cristo, prima della distruzione del Tempio di Gerusalemme. Vengono accesi i fuochi nei forni intorno al luogo del sacrificio, dove ciascuna famiglia conduce la sua pecora. Al tramonto la piazza è piena, tutti sono vestiti di bianco. Il sommo sacerdote conduce la preghiera e quando dice “il popolo di Israele sarà liberato dalla schiavitù” gli animali vengono uccisi, ripuliti e messi a cuocere sulla cenere nei forni coperti di sabbia. Uomini, donne , bambini, si abbracciano e si segnano la fronte con il sangue degli animali sacrificati. «Festeggiamo la liberazione dalla schiavitù d’Egitto, proprio come dice la Bibbia» ci dice una ragazza. I suoi occhi azzurri e i capelli biondi esprimo la sua appartenenza a una famiglia mista. Nuove generazioni che hanno già cominciato a premere su sacerdoti ed anziani per liberarle anche dagli aspetti più gravosi dei dettami della Torah. Come il lungo isolamento dopo il parto. Se proprio non lo si può accorciare, almeno sia permesso di viverlo insieme alle altre donne impure.
*Giornalista, corrispondente per il Medioriente di Tv2000 e InBlu2000
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