Suor Smerilli: peggio della crisi, il dramma di sprecarla
di suor Alessandra Smerilli, Fma*
Peggio di una crisi come quella che stiamo vivendo, c’è solo il dramma di sprecarla. Queste parole, che Papa Francesco continua a ripetere, invitando tutti a cogliere il momento attuale come un’opportunità di cambiamento, sono state riprese anche nel videomessaggio trasmesso in occasione della 109a Conferenza Internazionale del Lavoro appena conclusasi.
Il virus, come un flagello, ha colpito tutti indistintamente. I suoi effetti, tuttavia, si sono riversati in maniera differenziata, con conseguenze particolarmente gravose su alcuni. Il mondo del lavoro, specialmente in alcuni settori, ha sofferto e sta soffrendo profondamente.
Si sono persi tantissimi posti di lavoro, sono diminuite le opportunità di impiego dignitoso, i lavoratori meno garantiti e con minori tutele sociali hanno sofferto e stanno soffrendo più di altri. E quando manca il lavoro può mancare il pane e si rischia di perdere anche la casa. Si perde la dignità, si compromettono le relazioni sociali e familiari, le prospettive educative e dunque il futuro proprio e dei propri cari.
La priorità è chiara per chi si occupa di lavoro e di lavoratori: ripartire mettendo al centro i lavoratori che sono ai margini. Tale categoria è ampia ed eterogenea: i lavoratori con ridotte qualifiche professionali o con competenze obsolete e “superate” (si pensi ai lavoratori più anziani e alle mansioni trasformate da processi di digitalizzazione e automazione), i lavoratori intermittenti, stagionali e a chiamata, i lavoratori impiegati in settori informali e non regolamentati, i lavoratori provenienti da contesti migratori, i lavoratori impiegati in attività usuranti e pericolose, i lavoratori che subiscono condizioni di impiego ingiuste e degradanti.
Occorre aver chiaro che una società non può “progredire scartando”. Un bene non può essere un bene per me se non lo è anche per l’altro.
Papa Francesco individua alcune direzioni di futuro. La prima, che ha a che fare anche con le trasformazioni del mondo dell’occupazione, è che il lavoro non è semplicemente impiego, e non è solo impiego formale. Si può essere lavoratori (workers), senza essere degli impiegati (employees) con un regolare contratto. Questo implica un nuovo modo di pensare alle tutele, in particolare per quel lavoro informale che rappresenta il 70% dell’occupazione in alcune zone del mondo, ma che è molto presente anche nelle società più strutturate e avanzate.
Pensiamo al crowd work, attraverso il quale un lavoratore in una qualsiasi parte del mondo è in grado di lavorare in favore di persone e imprese grazie alle commesse della piattaforma virtuale a cui è connesso. Esso è privo di tutela e non rientra negli schemi giuridici del diritto del lavoro novecentesco. Per questo, si pongono interrogativi in ordine agli standard minimi di tutela dei crowd workers.
La sfida che abbiamo davanti è immaginare e implementare nuove tutele, nuove regole, nuove norme sociali. Con quali criteri lo faremo? Saremo in grado di partire da chi è svantaggiato, più debole, da chi rischia di rimanere ai margini? Avremo il coraggio di progettare un’infrastruttura normativa ed economica che ponga le basi perché il lavoro possa essere sempre e per chiunque un’unzione di dignità?
La seconda direzione di futuro, messa in evidenza dalla pandemia, è quella di prendere in seria considerazione il tema della cura: secondo Papa Francesco «se il lavoro è un rapporto, allora deve includere la dimensione della cura, perché nessun rapporto può sopravvivere senza cura». Sulla relazione tra lavoro e cura occorre sottolineare due nodi che vanno necessariamente affrontati: il lavoro di cura e la cura che rende possibile il lavoro, ma anche la dimensione della cura insita in ogni lavoro. Nell’enciclica Fratelli tutti, paragrafo 64, Francesco scrive: «Diciamolo, siamo cresciuti in tanti aspetti ma siamo analfabeti nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e deboli delle nostre società sviluppate».
Lavoro e cura sono due dimensioni fondamentali dell’essere umano: entrambe conferiscono dignità al nostro vivere su questa terra. Eppure il lavoro è valorizzato, anche socialmente, mentre la cura è nella maggior parte dei casi relegata alla sfera privata, considerata come un extra. E quando questa attività è svolta dietro compenso, spesso tale compenso è basso e per lo più simbolico. Prestare attività di cura diventa un lavoro occasionale, di rimpiazzo, di momentaneo impiego per chi sta ai margini, e interessa in larga parte le donne. Non possiamo vivere senza cura, eppure, nella realtà dei fatti, notiamo che la cura è invisibile, dimenticata, sottostimata.
Di questo tema si è parlato in una conferenza organizzata dalla Commissione Vaticana sul Covid-19 e dall’Università Loyola di Chicago: A better way to work: Pope Francis, the Care Economy, and the Future of Work. Ne è scaturito che la strada da percorrere è quella di considerare il tema della cura, e del prendersi cura, come un impegno dell’intera comunità, e non dei singoli, o delle singole famiglie. Per farlo è necessario riuscire a cambiare le norme sociali sul lavoro e sulla cura: lavoro e cura sono interconnessi e non riusciremo a valorizzare la cura, se non ristrutturiamo il modo di intendere il lavoro.
La proposta, avanzata dalla filosofa canadese Jennifer Nedelski, è quella di rendere le attività di cura parte integrante dell’orario di lavoro, per tutti. Nessuno dovrebbe lavorare più di 30 ore a settimana e nessuno dovrebbe dedicare meno di 22 ore a settimana ad attività di cura, dentro e fuori la famiglia.
Solo se riusciamo a valorizzare socialmente e normativamente la cura potremo far sì che essa diventi dimensione imprescindibile di ogni lavoro, perché «un lavoro che non si prende cura, che distrugge la creazione, che mette in pericolo la sopravvivenza delle generazioni future, non è rispettoso della dignità dei lavoratori e non si può considerare dignitoso».
* Sotto-Segretario per il Settore Fede e Sviluppo del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale
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