Tigray, una popolazione stremata da violenze, covid e carestia
di Giulio Albanese
La Regione etiopica del Tigray è con ogni probabilità, oggi, quella maggiormente provata dalla sofferenza nel grande continente africano. Le ragioni sono molteplici. Anzitutto, le agenzie umanitarie segnalano un progressivo deterioramento della situazione umanitaria, aggravata non solo dalla persistente carestia e dalla pandemia da Covid-19, ma anche dal perdurare dell’insicurezza causata da una grave condizione di belligeranza tra gli opposti schieramenti.
Gli attori del conflitto sono divisi in due schieramenti: da una parte le forze governative etiopiche, affiancate da reparti dell’esercito eritreo e amhara; dall’altra è invece in campo il Fronte di Liberazione del Tigray (Tplf) che oppone una strenua resistenza. Si tratta di uno scontro asimmetrico nel senso che i combattenti del Tplf, essendo profondi conoscitori della regione, si sono insediati in alcune zone montuose impervie dalle quali operano azioni di disturbo nei confronti dei loro avversari.
Sebbene le autorità di Addis Abeba abbiano dichiarato ufficialmente di aver concluso il conflitto lo scorso 27 novembre 2020, con la presa della città di Makelle (capitale tigrina), i combattimenti tra gli opposti schieramenti proseguono ad oltranza ed è molto difficile monitorare l’evoluzione della crisi che sta fortemente penalizzando la stremata popolazione civile. Il numero delle vittime rimane incerto, ma fonti indipendenti parlano di decine di migliaia di morti, molti dei quali anziani, donne e bambini.
Il deficit di informazioni dalla Regione del Tigray dipende da una serie di fattori che solitamente vengono riscontrati nelle tradizionali aree di crisi africane. Si segnalano infatti limitazioni e controlli nei movimenti di persone e beni di prima necessità, come anche nelle trasmissioni telefoniche analogiche e digitali.
Fonti indipendenti della società civile parlano di flagranti violazioni dei diritti umani, uccisioni, massacri collettivi, stupri, arresti arbitrari, pestaggi, esecuzioni extragiudiziali e altre vessazioni nei confronti dei civili. Sono stati operati numerosi bombardamenti sugli insediamenti urbani, sulle infrastrutture pubbliche, sui luoghi di culto (chiese e moschee) e altri siti che appartengono al patrimonio storico e culturale della civiltà axumita. Manca tuttora la conferma, da parte delle autorità governative etiopiche, del massacro denunciato da fonti indipendenti nel complesso di Nostra Signora Maria di Sion ad Axum, dove avrebbero perso la vita almeno 750 persone. Da rilevare che l’edificio sacro in questione, secondo la tradizione della Chiesa ortodossa d’Etiopia, custodisce l’Arca dell’Alleanza ed è sempre stato meta di pellegrinaggio per molti fedeli.
Secondo alcuni esperti di diritto internazionale e dei diritti umani che stanno monitorando l’evolversi della crisi armata, molte delle azioni perpetrate nelle zone di belligeranza potrebbero essere classificate, nell’ambito dell'ordinamento giudiziario in sede internazionale, come «crimini di guerra» e «contro l’umanità». È evidente che in questo inferno di dolore, occorre anzitutto garantire l’incolumità delle popolazioni autoctone che a circa sette mesi dall’inizio del conflitto sopravvivono in molti casi in condizioni subumane. Purtroppo le operazioni di soccorso continuano a subire ingiustificabili limitazioni e confische di mezzi di trasporto e beni d’ogni genere. Rispetto ai mesi scorsi si sono aperti dei varchi insperati per raggiungere alcune comunità isolate, anche se comunque la garanzia che gli aiuti giungano a destinazione è sempre incerta, essendo imprevedibili i comportamenti dei militari. Dall’inizio delle operazioni militari, hanno perso la vita 9 operatori umanitari di nazionalità etiope; l’ultimo è stato ucciso lo scorso 28 maggio insieme al primo cittadino della municipalità di Adigrat.
Dal punto di vista sanitario, preoccupa la distruzione di numerosi presidi ospedalieri, molti dei quali sono stati letteralmente rasi al suolo. Quelli ancora funzionanti non sono assolutamente in grado di rispondere adeguatamente alle richieste di soccorso. Scarseggiano i farmaci e le poche sale operatorie ancora in funzione non riescono a soddisfare la domanda dei ricoveri per traumi bellici.
La crisi del Tigray rappresenta certamente una spina nel fianco dell’intero Corno d’Africa, già duramente provato dalla crisi somala e dal contenzioso regionale sull’utilizzo delle acque del fiume Nilo. Nel frattempo, per quanto concerne il Tigray, vengono segnalate numerose iniziative diplomatiche, sia nell’ambito dell’Unione Africana (Ua), sia nelle sedi degli organismi internazionali, in primis le Nazioni Unite. Particolarmente significativa è stata la presa di posizione di Abuna Matthias, patriarca della Chiesa Ortodossa Tewahedo d’Etiopia, la cui autorevolezza religiosa e morale è sempre stata oggetto di grande rispetto e considerazione in tutto il suo paese. In una dichiarazione video rilasciata l’8 maggio scorso e che ha avuto risonanza a livello internazionale, suscitando peraltro reazioni disparate, l’anziano patriarca ha duramente condannato il ricorso alla violenza nel Tigray, sua terra natia. Una presa di posizione, la sua, che ha causato il risentimento delle autorità di Addis Abeba che gli hanno imposto una sorta di domicilio coatto.
Dal canto suo, la comunità cattolica locale, che rappresenta circa l’1 per cento della popolazione etiope, ha profuso un significativo aiuto umanitario a favore del Tigray facendosi interprete dell’illuminato magistero della pace di Papa Francesco il quale segue con trepidazione gli sviluppi della situazione.
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