Carlo Verdone: le lezioni di papà e quelle dei miei figli
di Andrea Monda
Per parlare con Carlo Verdone di paternità ci viene spontaneo partire dalla figura del Santo Padre, anche perché il recente incontro personale tra il regista romano e Francesco ha colpito in profondità l’immaginazione del primo che non esita a sottolineare che è stato come preso in contropiede dal Papa: «E sì, perché rispetto a come ricordavo o immaginavo le figure dei Pontefici, che erano per me persone da cui “si andava”, in questo caso invece mi è sembrato che è il Papa che va incontro alla gente, e ciò mi ha colpito. Così come mi ha quasi spiazzato la semplicità della persona, una semplicità però “per modo di dire” perché da una parte si presenta come una persona come le altre, che puoi incontrare al bar, molto simpatica e molto premurosa per i suoi ospiti, direi molto umana; dall’altra parte però, quando ti spiega una cosa parte in maniera molto semplice e sembra volare basso ma poi, piano piano, incominci a sentire che sta alzando il livello della riflessione che sta elaborando, e lo fa insieme a te, e così arriva a vertici molto alti; è un po’ come un aereo che romba sulla pista e poi lentamente si alza in volo».
Non pensa che il Papa sia un uomo che sa esercitare la paternità in un momento in cui il mondo sembra fatto per lo più di orfani?
Sì, i padri in effetti sembrano scomparsi all’orizzonte. Una parola che ha usato per lo meno dieci volte durante l’incontro è stata “noi”, una parola un po’ scomparsa dal nostro linguaggio comune. Oggi diciamo sempre di più “io” e invece il Papa, con quella insistenza, ci ha ricordato che dobbiamo parlare in quanto “noi”: noi come comunità, noi come famiglia, noi come fratelli, noi come un tutt’uno. Forse perché la famiglia sta vivendo una gravissima crisi in questi ultimi decenni; le relazioni durano pochissimo e si assiste al fenomeno che l’amore e i sentimenti si consumano, proprio come gli oggetti, come si consumano gli smartphone. Questo conduce ad uno dei mali peggiori della società: la solitudine. La solitudine è data dalla mancanza di relazione tra figli e genitori e non saprei di chi sia la colpa...
Quale può essere la spiegazione? Quale il nodo da cui ripartire?
Il problema dipende molto dagli esempi che i genitori riescono a dare i figli. Gli esempi non sono fatti di parole, di grandi colloqui. Il grande insegnamento sta nel vedere come si comportano i genitori, anche nel silenzio, perché si può educare anche stando zitti. Ho avuto una famiglia in cui gli esempi sono stati molto alti: c’era la risata, c’era la battuta, però c’era anche il silenzio e vedere mio padre come lavorava, la sua professionalità, serietà, concentrazione (lo stesso dicasi per mia madre) mi faceva capire come la vita, il lavoro dovessero essere vissuti. Oggi gli esempi sembrano più rari. Forse perché, purtroppo, i padri rifiutano la propria età e vogliono mostrarsi più giovani dei figli e questo crea un grande caos. La realtà è che sono solo degli immaturi con una visione distorta della vita, priva di quella saggezza di cui abbiamo tanto bisogno, che porta a concepire la vita come prestazione e le relazioni come beni di consumo, proprio come uno smartphone, un’applicazione che devi sempre aggiornare e quindi si aggiornano i sentimenti, le relazioni... perché altrimenti vince la noia. E allora si vive tutto sotto la spinta degli istinti del momento (la cronaca di questi ultimi tempi è spaventosa, spesso a sfondo sessuale). Io forse ci sono arrivato molto tardi a questa riflessione, ma ora mi rendo conto che amare una persona è un lavoro. Amare non è una cosa semplice ma un quotidiano impegno che ha dei momenti estremamente belli ma anche momenti faticosi.
Di recente ha citato Enea che, fuggendo da Troia, prende il vecchio padre Anchise sulle spalle e il figlio per mano, un’icona della centralità della famiglia, come mai?
Quell’immagine mi è tornata in mente grazie ad un testo, una conversazione di Borges. Mi ha fatto riflettere sul fatto che gli anziani sono un bene prezioso da custodire, preservare e invece si fa poco per loro. Chi è vecchio sta andando verso la fine della vita e invece vediamo che spesso si continua a voler fermare il tempo, a ricercare la giovinezza attraverso gli abiti, il lifting, il viagra... non accettiamo la vecchiaia che ci fa paura. Ma questo è davvero terribile, perché impedisce di vivere la propria stagione della vita, di essere una persona in grado di dare consigli ai più giovani; si perde la bellezza della vecchiaia che è quella di essere un punto di riferimento per gli altri, una memoria storica, una saggezza vivente che dona il frutto della propria esperienza ai suoi cari.
Il Papa nella «Patris corde» indica come modello paterno san Giuseppe, un padre che parla poco ma sta lì, nell’ombra e nel silenzio, però poi è lui che prende le decisioni importanti, dimostra un coraggio creativo sorprendente. Come figlio e ora come padre dei suoi figli, non ritiene che sia fondamentale per essere buoni padri questa creatività?
Senz’altro. Da questo punto di vista sono stato fortunato. Penso che ogni padre dovrebbe fare un po’ quello che ha fatto il mio che è stato un uomo molto divertente con noi; papà ci ha fatto divertire, ci ha fatto conoscere tante cose, il cinema, il circo, le partite a pallone al Circo Massimo... e poi la domenica era destinata alla Galleria nazionale d’arte moderna. Noi infatti avevamo in casa, tanti quadri astratti, che non capivamo e di cui chiedevamo. E allora la domenica i nostri genitori ci portavano, proprio come andare a scuola, alla Galleria d’arte moderna. E così papà ci ha spiegato il passaggio dalla pittura figurativa alla pittura astratta, dai macchiaioli ai divisionisti, ai futuristi... Queste lezioni di papà, erano veramente molto belle in quel bell’ambiente, silenzioso e pulito, della Galleria (ricordo ovviamente molto bene il bar che ci piaceva tanto a me e a mio fratello). Per noi tutto questo era un grandissimo piacere, andare con lui la domenica alla Galleria d’arte moderna. E poi un’altra cosa molto importante è viaggiare coi propri figli, come ha fatto mio padre con me, con noi. E la stessa cosa l’ho voluta fare io con i miei. Il viaggio è una condivisione perfetta, si vivono insieme le emozioni e senti che tuo padre, in quel momento, si sta occupando di te. È sempre più difficile trovare persone che condividono alcune cose ed io fortunatamente una persona l’ho trovata: mio figlio. Ormai per me è come un amico. Almeno una volta a settimana per un paio d’ore viene qui da me e ascoltiamo insieme della musica, in silenzio, e condividiamo questa bellezza. Lui mi porta delle cose che io non conosco ed io faccio lo stesso, gli faccio ascoltare cose che lui non conosce, questo è molto importante, lega molto il rapporto che va oltre la paternità. A chi mi chiede con quale amico vorresti andare a cena io dico: con mio figlio perché so che non mi annoierò mai; è molto intelligente, acuto, colto. Da una parte potrei dire che, ovviamente sono stato io a dargli l’input su tante cose, sull’arte, sulla fotografia e sui film, sulla cinematografia... poi a un certo punto è arrivato un momento in cui i miei figli hanno iniziato a viaggiare molto più di me. Ed è bello il motivo del loro viaggiare: sono alla ricerca dello stupore, di quello stupore che mio padre mi ha in qualche modo inculcato ed io ho trasmesso loro. Allora sì, è vero, io ho insegnato tante cose a loro, ma arriva un momento in cui sono loro che insegnano a te ed è il momento in cui devi stare molto attento, devi starli ad ascoltare, quando capisci che non sono più piccoli come credi, ma ti stanno ponendo delle domande, delle riflessioni molto importanti. Se si riesce a captarlo, questo è il momento in cui il rapporto si solidifica. La famiglia così solida diventa come una fortezza in cui ti senti protetto come da un calore particolare, ti senti accolto dentro un’alleanza. Io vedo che i miei figli vivono la loro vita con una forte dimensione etica e questa è la cosa che più mi fa piacere, così come quando scopro, a volte, che hanno più buon senso, coraggio e più forza di me.
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