Olimpiadi, dai cinque cerchi riflessi di fraternità
di Giampaolo Mattei
A dirla tutta, i Giochi olimpici di Tokyo non sono finiti domenica 8 agosto. C’è una pausa “tecnica” di due settimane (un po’ come tra il primo e il secondo tempo di una partita di calcio) e martedì 24 agosto si riprende con le Paralimpiadi. Proprio quel suffisso greco — para — fa presente che “è la stessa cosa”, modulata in modo diverso. Ma non sono certo “ipo” Olimpiadi, con gare e atleti di serie b. Anzi... il meglio deve ancora venire.
Perciò i Giochi a Tokyo si concluderanno, in realtà, domenica 5 settembre proprio con la fine delle Paralimpiadi. Per passare il testimone a Pechino che dal 4 febbraio 2022 ospiterà Olimpiadi e Paralimpiadi invernali.
La “prima parte” dei Giochi è culminata, ieri, con la maratona: la gara-simbolo, metafora incalzante per la vita di ciascuno. Ma anche segno “provocatorio”: a tagliare per primi il traguardo — capovolgendo le scale economiche e le classifiche del pil — sono sempre gli atleti del cosiddetto “terzo mondo”. La maratona olimpica l’ha ri-vinta il kenyano Eliud Kipchoge in 2h08’38”: esattamente la durata della preghiera di mamma Janet che, come per ogni vittoria del figlio, è poi andata a messa nella chiesetta del suo villaggio di Kapsisiwa «per dire grazie a Dio».
Nella corsa di fatica vincono gli africani, anche quando indossano la maglietta del Paese che li ha accolti. E sulla pista olimpica di Tokyo sabato c’è stata un’altra... “cerimonia di accoglienza”, con tanto di “certificato” sportivo. Il kenyano campione del mondo Timothy Cheruiyot perde la volata sui 1500 metri con il norvegese Jakob Ingebrigsten e, subito dopo il traguardo, lo “battezza” africano d’elezione, infilandogli personalmente al polso il braccialetto con i colori del Kenya. Insomma lo ha accolto: nella corsa il forte Sud del mondo apre le braccia e “include” il Nord.
Le Olimpiadi sono storie di donne e di uomini che oggi non riescono a fermare «la terza guerra mondiale a pezzi» ma suggeriscono la possibilità di un’umanità più fraterna. Papa Francesco alla sua squadra, Athletica Vaticana, ha detto lo scorso 29 maggio che «tutto ciò che riguarda l’uomo sta a cuore alla Chiesa». E per questo è di grande significato che, anche con la collaborazione del Pontificio consiglio della cultura, il Comitato olimpico internazionale abbia aggiunto la parola latina Communiter (“Insieme”) al motto olimpico. E subito due atleti — il qatariota Mutaz Ezza Barshim e l’italiano Gianmarco Tamberi — hanno scelto di condividere la medaglia d’oro nel salto in alto, spiazzando chi vuole un vincitore per forza. Si può cambiare la cultura della vittoria a tutti i costi e si può vincere insieme. Communiter, appunto.
L’Osservatore Romano pubblica oggi un “primo piano” con alcune storie olimpiche e, anzitutto, con il profilo del Team dei rifugiati. E a Tokyo avrebbe potuto esserci anche Saamiya Yusuf Omar. Ai Giochi di Pechino, nel 2008, diciassettenne, aveva corso per la sua Somalia arrivando ultima nei 200 metri. Saamiya aveva la speranza di ripetere l’esperienza olimpica a Londra nel 2012 ma è morta, a largo di Lampedusa, nel naufragio del barcone sul quale aveva investito il suo sogno di giovane donna. Anche a Londra probabilmente sarebbe arrivata ultima. O forse penultima. Ma prima nella classifica di chi sa sperare contro ogni speranza.
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