“Donne Chiesa Mondo”: storia di Nabila, la suora della speranza a Gaza
di Alessandra Buzzetti*
«Bisogna essere donne coraggiose qui, se mostri debolezza sei finita, non riesci a portare a termine niente. Vestire l’abito religioso, qualche volta, è stato un vantaggio». Per capire le parole di suor Nabila Saleh, bisogna vederla in azione a Gaza, dove più d’uno l’ha soprannominata “la Ministra”. I suoi occhi verdi sono sempre vigili, le sue origini egiziane sono un aiuto naturale alle relazioni che, da queste parti, sono piuttosto complicate. Tanto più se si è a capo della Rosary Sister’s School, la scuola di eccellenza della Striscia, frequentata anche da alcuni rampolli di chi la governa. Dall’asilo alle superiori 1160 studenti, di cui solo 78 sono cristiani.
La prima campanella, quest’anno, è suonata il 4 settembre, tre settimane in ritardo rispetto al calendario. Non a causa del Covid, ma dei lavori di riparazione dei danni della guerra del maggio scorso. Nell’ufficio di suor Nabila sono tutti spenti i monitor da cui controllava le aule e le telecamere esterne di sorveglianza. Le ultime immagini registrate sono del 12 maggio 2021: un fiume di fuoco arrivato a lambire l’ingresso principale della scuola. «Trecentomila dollari di danni, una cifra enorme paragonata ai cinquecentomila dollari di budget annuale. Per fortuna non si tratta di danni strutturali e abbiamo già trovato i donatori. Oltre al Patriarcato latino e a qualche singola e commovente donazione, ci è arrivato un ingente contributo da una Associazione cattolica parigina. Sarà anche perché i nostri studenti sono i migliori in francese nella Striscia» ci dice con il sorriso di chi sa che affidarsi alla Provvidenza significa rimboccarsi le maniche, imparare ad investire nei progetti giusti e saper fare bene i conti.
Suor Nabila ha 43 anni e non ha ancora smesso di studiare. È iscritta a un master in Gestione delle Risorse umane nell’Università palestinese della Striscia. «Durante le prime ore di lezione sono venuti a vedermi studenti di altre classi, non avevano mai visto una suora — racconta — tanto che un giorno ho tenuto una lezione sulla Chiesa e sulla vita consacrata. Una donna non sposata e senza figli è una donna a metà per i musulmani, qualcosa di inconcepibile. Eppure il direttore del master ha voluto farmi lavorare in un workshop con uno sceicco salafita. Non è stato facile, ma abbiamo collaborato. Con l’arrivo della pandemia io ho dovuto sospendere le lezioni, mentre lui, da quanto ne so, ha terminato il master. Spero di riprendere la frequenza questo autunno».
Suor Nabila procede più lentamente, ma con tenacia. Anche perché desidera dare l’esempio come religiosa di una congregazione nata per servire la Chiesa locale ed emancipare le donne arabe di Terrasanta a partire dall’istruzione. Congregazione fondata a Gerusalemme nel 1880 da un sacerdote palestinese del Patriarcato latino e da suor Maria Alfonsine – canonizzata nel 2015. Le Suore del Santo Rosario sono le uniche che, per Statuto, accolgono solo postulanti di origine araba.
Suor Nabila le ha incontrate in Egitto. Non ad Asyut, la sua città natale affacciata sul Nilo, ma durante gli anni di università al Cairo. «Vengo da una famiglia praticante e fin da piccola avevo il desiderio di consacrarmi a Dio — ricorda suor Nabila — a 23 anni sono entrata nelle Suore del Santo Rosario. Mi ha affascinato il carisma mariano e il loro modo di accogliere e aiutare la nostra gente».
Egitto, Libano e, nel 2006, l’approdo in Terrasanta. Nella casa generalizia di Bethanina, quartiere a maggioranza araba di Gerusalemme, sede di una delle tante scuole fondate dalla Congregazione in Medioriente. Ce ne sono anche in Kuwait, in Qatar e in Shariqah, polmoni economici importanti per sostenere gli Istituti dei Paesi più poveri. Come la Siria, il Libano, i Territori palestinesi e Gaza.
La missione nella Striscia è su base volontaria, suor Nabila ci è arrivata per la prima volta nel 2008 per dirigere l’asilo inaugurato nel 2000 e intitolato a Zahwa Arafat, una delle prime bambine ad averlo frequentato. È stato suo padre Yasser a donare il terreno alle suore per costruire una scuola a Gaza, dove il primo presidente dell’Autorità palestinese aveva una sontuosa residenza e il desiderio di rendere Gaza City, unica città palestinese affacciata sul mare, la Tel Aviv della Cisgiordania.
All’arrivo di suor Nabila era cambiato tutto. Dopo aver atteso dieci ore al checkpoint israeliano, aver percorso le strade sconnesse con cumuli di spazzatura ovunque e aver trovato l’edificio delle suore pericolante e mezzo incendiato la giovane suora è scoppiata a piangere. Era da poco finita la prima guerra tra Israele ed Hamas, al potere nella Striscia dal 2007. L’atmosfera tesissima anche tra le diverse fazioni islamiste di Gaza. Qualcuno non vedeva le suore di buon occhio, tanto da piazzare una bomba di sei chili davanti alla porta del convento.
«Abbiamo sentito un boato fortissimo alle quattro di mattina, siamo sopravvissute per miracolo, perché la bomba è scoppiata a metà. Ce lo ha detto anche il miliziano di Hamas venuto a vedere cosa fosse successo» ricorda suor Nabila. Un battesimo di fuoco che l’ha costretta a chiedersi cosa ci facesse lì. «L’obbedienza nella mia vita è stata sempre un faro: se Dio mi vuole in un luogo, mi dona tutto ciò di cui ho bisogno».
Un primo regalo sono stati gli occhi di Soha, una bimba di appena 5 anni, figlia di un musulmano molto osservante. La piccola era così entusiasta dell’asilo che a casa ripeteva che da grande sarebbe diventata suora. A non essere entusiasta era il suo papà, deciso a ritirare la bambina dalla scuola. «Un giorno è venuta la mamma che desiderava profondamente una educazione diversa per sua figlia. Mi ha chiesto di parlare alla piccola e spiegarle che era meglio che a casa non parlasse dell’asilo. Ne è seguito un dialogo semplice, centrato sul fatto che dobbiamo custodire nel cuore ciò che di bello incontriamo. Da quel momento non ci sono più stati problemi. Educare non significa rinunciare alla propria identità, ma è una semina lunga e paziente».
Non è un caso che le uniche scuole miste siano le tre cristiane della Striscia e che la più costosa non abbia problemi di iscrizioni. 750 dollari di retta annuale, con un incremento di 50 dollari per ogni ciclo scolastico, non sono pochi per chi abita a Gaza, dove più della metà dei due milioni di abitanti non ha un lavoro e dove da un giorno all’altro si può perdere la casa e quel poco che si ha. Gli studenti che hanno fatto la maturità nel 2021 alla Rosary Sister’s School hanno vissuto già quattro guerre. La più lunga — 51 giorni — è stata quella del 2014, quando suor Nabila, dopo una pausa di qualche anno, è tornata a Gaza per dirigere l’intera scuola.
«La ricostruzione più difficile non è quella materiale, ma quella psicologica e delle relazioni. Tanti bambini soffrono di traumi postguerra, tanti hanno perso qualcuno sotto i bombardamenti, tutti gli abitanti di Gaza soffrono della permanente condizione di assedio, della mancanza di libertà e di speranza nel futuro. Non è facile insegnare ad amare il proprio nemico e insieme a difendere i propri diritti come esseri umani». Tra i 115 dipendenti ci sono anche gli psicologi che aiutano i ragazzi nei momenti in cui il conflitto si acuisce, quando è ancora più importante organizzare attività ricreative, di incontro, di solidarietà reciproca. Il portone delle suore si apre spesso per accogliere i ragazzi anche per attività extrascolastiche e festicciole, perché è un luogo considerato sicuro dalle famiglie.
«Quando vengono ad iscrivere i figli, non chiediamo nulla su chi siano o da dove vengano. Certo poi non è difficile capirlo, l’importante è che siano disposti a seguire le nostre regole. Rispetto e conoscenza reciproca significano anche disciplina. E ogni tanto bisogna ribadirlo con fermezza». Quando quella di suor Nabila non basta, a intervenire sono i due sacerdoti della piccola comunità cattolica di Gaza. Appena 130 anime, di cui una quindicina religiosi missionari. La messa, l’adorazione eucaristica e il Rosario quotidiani restano il cuore della vita di suor Nabila, come necessaria è la condivisione con le due consorelle Martina e Bertilla.
L’ultimo conflitto le ha messe a dura prova. «Abbiamo più volte avuto paura di morire. Ci siamo confessate e abbiamo deciso di dormire sempre con indosso l’abito e nella stessa stanza. Pronte a dare la vita» ricorda suor Nabila, che anche durante i raid dell’aviazione israeliana non ha perso il pragmatismo.
«Sono corsa due volte nella sala computer, dove c’erano ventitre pc ancora imballati. Un regalo del valore di quindicimila dollari arrivato prima del Covid. Non potevo non metterli in salvo, anche per rispetto di chi ce li aveva donati. La madre generale mi ha fatto una ramanzina per quello che ho rischiato. La responsabilità non fa sentire troppo la paura e poi nella sofferenza si incontra la Grazia».
*Giornalista, corrispondente per il Medio Oriente di Tv2000 e RadioinBlu
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