San Francesco non voleva fondare un Ordine, ma raccogliere un popolo nuovo
Questo testo fa parte del capitolo «Osservazioni sulla questione dei carismi nella Chiesa» pubblicato in originale in Korrespondenzblatt der Priestergemeinschaft des Collegium Canisianum zu Innsbruck - 1969/1970. Il nuovo volume dell’Opera omnia sarà presentato martedì 1 marzo al Pontificio Collegio Teutonico in Vaticano alle ore 18. Dopo i saluti di p. Federico Lombardi, presidente della Fondazione Ratzinger, di mons. Stefan Heid, della Biblioteca Ratzinger, e di Lorenzo Fazzini, responsabile editoriale di Lev, interverranno il cardinale Josef Cordes, presidente emerito del Pontificio consiglio «Cor Unum», e Giulio Tremonti, presidente dell’Aspen Institute, i quali si confronteranno sul tema «La Chiesa dell’amore è anche la Chiesa della verità». L’eredità di Benedetto XVI nelle due encicliche sulla Caritas. A moderare sarà il giornalista Nico Spuntoni. Informazioni su www.libreriaeditricevaticana.va.
I Carismi nella Chiesa
Da che cosa si può riconoscere un carismatico autentico? A questa domanda non si deve rispondere in astratto. Essa è stata storicamente vissuta e sofferta e dunque può essere adeguatamente chiarita al meglio dai grandi rappresentanti dei compiti carismatici nella storia della Chiesa: Ildegarda di Bingen, Caterina da Siena, Francesco d’Assisi, Teresa d’Avila, Ignazio di Loyola, e su un altro piano, Giovanna d’Arco e tanti altri. La figura carismatica più significativa nella storia della Chiesa è stata senza dubbio Francesco d’Assisi, nel cui destino, forse, possono anche emergere al meglio in modo esemplare tentazioni e grandezza del carismatico nella Chiesa.
Francesco d’Assisi non fu propriamente il fondatore di un Ordine, quantomeno non lo volle essere. Sapeva che il compito che lo attendeva era molto più radicale: egli voleva raccogliere un novus populus che seguisse il Discorso della montagna sine glossa, trovando in esso la sua unica e immediata “regola”. Questo per Francesco significava esattamente l’opposto della “fondazione di un Ordine”: egli si è sempre opposto appassionatamente a inserire il suo nuovo popolo nel già noto schema giuridico-ecclesiastico di un “Ordine”, facendone una variante del monachesimo esistente, con una particolare spiritualità, con compiti e devozioni particolari, con sue proprietà. Le fonti testimoniano con estrema chiarezza con quanta passione egli rigettò quest’idea, quanto poco accettò di inquadrare il suo compito nel previsto schematismo giuridico di un “Ordine”. Quel che egli inaugurò doveva invece essere assai più un’antitesi al monachesimo esistente, dove la povertà individuale aveva condotto a una ricchezza collettiva sempre maggiore, cosicché i monasteri non rappresentavano più, come un tempo, la fuga saeculi, la fuga dal sistema mondano esistente, ma ne erano al contrario i rappresentanti privilegiati. Cluny, l’abbazia della riforma dal X al XII secolo, era via via diventata una delle più ricche signorie fondiarie, manifestazione privilegiata del sistema feudale; farsi monaco non significava più fuggire dal mondo, fuggire dal suo sistema di dominio e mettersi dalla parte dei senza tetto, dei poveri, dei dimenticati; significava, invece, venire a trovarsi nello strato più alto dei dominatori. E, soprattutto, gli Ordini non significavano più la peregrinatio del vangelo, l’inquietudine missionaria dell’apostolo, ma con la loro stabilitas loci fissavano la Chiesa in uno statico sistema ecclesiastico locale privo di dinamica missionaria. Essi non rappresentavano più il correttivo alla società dato dalla fede, bensì l’espressione della completa fusione di fede e società, nella quale il sale della fede necessariamente perdeva qualcosa del suo sapore.
Quando Francesco fa appello a un nuovo popolo che non abbia altra regola se non quella del Vangelo; che non si nasconda dietro le glosse dei commenti e le riflessioni teologiche, ma che si sottometta alle esigenze del Discorso della montagna; che non abbia la garanzia della proprietà terriera, ma si esponga alla precarietà del lavoro quotidiano facendosi povero con i poveri – egli non fa altro che richiamare la Chiesa stessa all’ora escatologica, vuole purificarla a partire dal Vangelo per giungere a quella obbedienza totale che la prepara all’avvento del Signore. In fondo Francesco riprende in gran parte, così, quello che già avevano tentato i pauperes Christi, i valdesi: Chiesa dei poveri contro Chiesa dei nobili e del grande latifondo; pietà e predicazione dei laici contro dominio di un culto divenuto fine a sé stesso; semplicità del Vangelo contro le sottigliezze della Scolastica. Erano tutti argomenti scottanti; tutti i movimenti di quel tipo erano guardati con sospetto e spesso deviavano verso istanze puramente socio-rivoluzionarie, settarie. Un tentativo senza speranza, dunque, che Francesco tuttavia intraprese nella letizia della sua fede e nella certezza del suo compito, fino al punto che si mise contro l’idea di crociata come manifestazione di quella fede ormai identificatasi completamente con la società di fronte al mondo non cristiano; e all’idea di crociata contrappose l’idea e la prassi dell’evangelizzazione. Il rifiuto delle forme esistenti di Chiesa, quella che oggi si chiamerebbe protesta profetica, non avrebbe potuto essere più radicale di quella di Francesco. Giunse fino alla radice, fino al punto da dover esigere un “novus” populus. Ma questo “no” radicale alle forme concrete della cristianità occidentale coesistette con un “sì” alla Chiesa altrettanto radicale: fare tutto in obbedienza alla Chiesa romana rappresentò per Francesco un programma tanto radicale quanto quello di vivere unicamente nella più completa obbedienza alla lettera del Vangelo; collocandosi completamente nel tempo dello Spirito Santo proprio attraverso questa letteralità… In Francesco d’Assisi è presente addirittura una mistica della Chiesa romana, dell’ordinamento gerarchico riassunto in essa, così come è presente in lui una mistica del Vangelo, del Discorso della montagna e dello Spirito che ci viene incontro rendendoci liberi.
Siamo giunti così all’autentica radice della natura e dell’agire di Francesco, che è definita da una duplice, appassionata obbedienza: assoluta obbedienza alla sua missione che lo orienta al Vangelo e soltanto al Vangelo (un “soltanto” che egli, nell’espressione sine glossa, valorizza e afferma contro l’arte della glossa e del commento del suo, come di ogni tempo). Quest’obbedienza perdura evidente e chiara sino agli ultimi giorni della sua vita, nei quali egli detta il suo testamento da semplice frate minore, senza ufficio né ruolo; obbedienza che, a fronte della già avvenuta trasformazione canonica della sua istituzione, ancora una volta sta nell’aver ricevuto il suo compito direttamente da Dio e nell’integrale riferimento al Vangelo: « E dopo che il Signore mi dette dei fratelli, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo […]. E a tutti i miei frati, chierici e laici, comando fermamente, per obbedienza, che non aggiungano spiegazioni alla Regola né a queste parole dicendo: “Così devono essere intese”; ma come il Signore ha dato a me di dire e di scrivere […], così voi con semplicità e senza commento dovete comprenderle, e santamente osservarle sino alla fine ». Insieme a quest’obbedienza integrale al compito direttamente ricevuto, in cui si vede il carisma di questo Santo, c’è però la volontà altrettanto decisa di stare obbediente nella Chiesa concreta, per sopportare e patire in essa il compito dell’obbedienza a Dio, che non può essere adempiuto se non in essa, nella pazienza di svolgere il proprio compito stando in essa e per essa. Qui Francesco rassomiglia in tutto e per tutto a sant’Ignazio, che con gioia accettò le catene dall’Inquisizione per adempiere in quel modo sia l’obbedienza al suo compito, sia l’obbedienza alla Chiesa concreta nella quale egli doveva realizzarlo. L’una cosa non può mai condurre alla rinuncia dell’altra, ma solo alla rinuncia di sé stessi. L’obbedienza al compito non è sminuita ma resa completa dall’obbediente stare nella Chiesa, perché solo questo conferma l’altra: l’autentico criterio del vero carismatico è l’abbandono di sé; ovvero, detto in termini più radicali: il criterio del vero carisma è la croce, il lasciarsi dilaniare tra il compito e il luogo del suo adempimento per amore del compito stesso. Chi non è disposto a questo, chi preferisce l’incolumità dell’io all’adempimento del compito nel luogo che è proprio a esso, dimostra che in buona sostanza considera comunque il proprio io più importante del compito, distruggendo in questo modo il carisma. In ultima analisi la scissione deriva dal fuggire la croce e dall’egoismo. Francesco riuscì a riportare nella Chiesa (dalla quale erano già stati banditi) il movimento della povertà e della pace, il movimento dei laici e dell’evangelizzazione, perché egli stesso si sottomise completamente alla croce: le stimmate, in questo senso, sono realmente espressione del luogo e della forma della sua esistenza. Ma questo, riassumendo, significa che la croce è luogo sorgivo e al contempo segno distintivo dello Spirito.
Con ciò siamo giunti di nuovo, in base alle esperienze della storia della Chiesa, al nesso fra cristologia e pneumatologia, e più precisamente alla loro interconnessione, che abbiamo imparato a riconoscere come ciò che caratterizza la concezione paolina. La prospettiva, peraltro, ora è diversa: in Paolo abbiamo visto che la pneumatologia è sviluppata a partire dalla fede nella risurrezione, ora essa ci si presenta come funzione della theologia crucis. Ma non c’è contraddizione. Infatti, per Paolo come per l’intero Nuovo Testamento, croce e risurrezione s’intrecciano, così che croce è sempre risurrezione incipiente o, in termini giovannei: “l’andar via” racchiude e al tempo stesso è già sempre l’autentico “venire”. Per converso, in questo tempo storico, il mistero della risurrezione assume la forma della croce; il “già” della risurrezione è sempre presente soltanto nel “non ancora” della croce. La croce è come “la porta stretta” nella quale la storia è convogliata e attraverso la quale va verso la Risurrezione. Al Vangelo di Giovanni, che ha conferito alla reciprocità di promessa escatologica e presente cristiano l’ultima forma concettuale all’interno del Nuovo Testamento, dobbiamo anche la più bella immagine dell’unità di croce e risurrezione, di cristologia e pneumatologia: il suo resoconto della passione si conclude con il racconto dell’apertura del costato di Gesù dal quale fluirono acqua e sangue (19,31-37): i racconti della risurrezione culminano nel racconto del dono dello Spirito Santo ai discepoli attraverso l’alitare su di loro: racconto della Pentecoste e racconto della Pasqua qui si fondono in una pneumatologia cristologica. L’immagine del sangue e dell’acqua che fluiscono dal costato aperto dice con grande forza la stessa cosa: le acque feconde dello Spirito, che rinnovano la terra, sgorgano dal Crocifisso. Lo Spirito è frutto della croce.
Dicendo questo siamo posti direttamente davanti ai compiti e alle questioni dell’oggi della Chiesa. Infatti, quest’affermazione non vale solo per allora, ma rappresenta il criterio permanente della pneumatologia per la Chiesa di ogni tempo. L’acqua della vita zampillata nella Chiesa nel nostro secolo proviene da coloro che hanno sofferto senza lamentarsi e non da coloro che in fin dei conti pensavano solo a sé stessi. La croce è l’autentico discrimine fra lo Spirito e quello che Spirito non è: solo dal cuore aperto sgorgano sangue e acqua. Il mistero di questa immagine ci interpella proprio in questo nostro tempo: è insieme orientamento, appello e promessa. Si può capire veramente che cosa significa “Non spegnete lo Spirito” solo davanti al costato aperto del Signore, la fonte dello Spirito nella Chiesa e per il mondo.
Joseph Ratzinger – Benedetto XVI
© Libreria Editrice Vaticana
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