Epicoco, il sacerdote rende visibile l’amore di Cristo per gli uomini
Tiziana Campisi – Città del Vaticano
I riti liturgici del Giovedì Santo celebrano, in particolare, l’istituzione dell’eucaristia e del sacerdozio. Nella Messa in Coena Domini, si ricorda l’ultima volta in cui Cristo raduna a mensa i suoi discepoli. Durante quella cena, alla vigilia della festa degli Azzimi - la Pasqua ebraica -, Gesù si china a lavare i piedi dei dodici, condivide pane e vino e pronuncia un lungo discorso. È quello che viene considerato il suo testamento spirituale. Nei suoi gesti e nelle sue parole si concretizzano due sacramenti: con la lavanda dei piedi Gesù insegna cosa vuol dire seguirlo, come comportarsi gli uni verso gli altri e soprattutto invita ad amare in una logica nuova, universale; con la benedizione del pane e del vino rende il suo corpo e il suo sangue alimento di salvezza da offrire in sua memoria.
Don Luigi Epicoco, assistente ecclesiastico del Dicastero per la Comunicazione, osserva che nella Messa Crismale e nella Messa in Coena Domini, l’identità sacerdotale emerge in tutta la sua bellezza, grazie anche ai segni chiave delle due celebrazioni: l’olio, il pane e il vino, che rappresentano il servizio più grande del sacerdote. Quando Gesù racconta la parabola del buon samaritano, spiega don Epicoco, dice che questi, avvicinandosi all’uomo che scorge in difficoltà, versa sulle sue ferite olio e vino, a significare la consolazione e la gioia. “Un sacerdote è istituito innanzitutto per rendere visibile questa consolazione e questa gioia che viene da Gesù stesso” afferma l’assistente ecclesiastico del Dicastero per la Comunicazione.
Perché nella lavanda dei piedi di Gesù agli apostoli si riconosce proprio il sacerdozio?
Questo nasce dal fatto che Gesù ha voluto significare, con questo gesto, la totalità del suo servizio e anche della sua postura davanti all’umanità. Egli, che davvero è il Figlio di Dio, si mostra a ciascuno di noi come colui che serve, e vuole che chiunque parli e agisca in nome suo, assuma la postura di colui che serve. Lavare i piedi significa non soltanto il gesto del servire, ma il gesto del toccare anche la parte più indegna degli altri, la parte più sporca, più misera. E l’amore è innanzitutto mettersi a servizio della miseria dell’altro, è amarlo in quella miseria, quindi, in quell’inginocchiarsi davanti ai piedi degli apostoli ogni sacerdote trova anche l'identità stessa, la postura stessa del proprio servizio.
Oggi questo servizio come si concretizza in particolare?
Il presbitero concretizza il suo sacerdozio innanzitutto abitando la realtà. In ogni storia, in ogni tempo, l’umanità vive delle circostanze, delle situazioni, delle povertà, delle miserie e il sacerdote non è semplicemente un ministro del culto, di una liturgia separata dalla realtà. Il servizio concreto all'uomo concreto fa sì che urgenze ed emergenze - con le periferie esistenziali di cui parla Papa Francesco - diventano anche quel popolo santo di Dio che ogni sacerdote deve servire. Non si è mai sacerdoti in astratto, né semplicemente, perché non esiste una teologia del sacerdozio disincarnata. Ogni epoca fa sì che quel sacerdozio, che è sempre lo stesso in ogni dove, in ogni in ogni situazione, si, poi, declini in maniera diversa. Credo che, in questo frangente della storia, essere preti significhi portare una presenza gratuita accanto agli altri. Far sperimentare questo amore di Dio è anche avvicinare gli altri al volto di Dio che è misericordia. E che, proprio perché è misericordia può donare significato alla vita delle persone.
Durante l'ultima cena Gesù conferisce un mandato ai suoi discepoli, ma fra loro Giuda lo tradisce, Pietro lo rinnega e Tommaso poi tentenna, come guardare a queste debolezze?
Questa è una pagina del Vangelo che può sembrare contraddittoria. È anche una scelta contraddittoria, ma in realtà è una scelta di grande speranza. Perché Gesù non chiama dei discepoli ideali, ma chiama delle persone reali, con la loro storia, con i loro limiti, con le loro capacità, ma anche con le loro fatiche. È bello pensare che ognuno di noi, anche nelle contraddizioni della propria storia, può mettersi al servizio del Signore; questo, però, quando siamo disposti ad aprire la nostra miseria all’esperienza dell'amore di Dio. Giuda si chiude nel suo errore, non si lascia raggiungere dal perdono, per questo la sua caduta, il suo tradimento, non concorrono a santificarlo, ma a rovinarlo, a schiacciarlo in questa colpa. Pietro, che fa qualcosa di molto simile perché rinnega Gesù, è capace di piangere, di convertirsi. E proprio per questo, nella sua debolezza, salvata, redenta, può confermare i fratelli. Gesù glielo aveva detto: il male, il diavolo, vi sta cercando per vagliarvi. “E tu, quando ti sarai ravveduto, conferma i tuoi fratelli”. È bello pensare che un prete è una persona debole, come tutti gli altri, una persona reale come tutti gli altri, e più di tutti gli altri si apre a quest'esperienza del perdono. Perché solo così può essere un ministro della misericordia.
Come guardare a queste fragilità, queste debolezze? Con quali occhi accostarsi, allora ad un presbitero?
Innanzitutto, smettendo di avere solo uno sguardo di giudizio, perché un sacerdote può funzionare bene nel suo sacerdozio se ha accanto un popolo che gli vuole bene, che lo ama, che lo accoglie, che lo aiuta, che lo accompagna, e non semplicemente un popolo che lo idealizza, lo mette in una nicchia e si allontana, in una visione che poi non è reale. Io penso che un prete, per far bene il prete, ha bisogno di essere voluto tanto bene. Molte fragilità si compenserebbero attraverso questo bene che viene dal basso. Molto spesso, i grandi impegni del sacerdozio possono essere vissuti solo e soltanto se c'è un popolo che rende possibile quell'impegno, attraverso proprio quella custodia che soltanto la gente sa offrire nei confronti dei preti.
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