Nuovi cardinali, Miglio: la porpora come servizio e impegno nel sociale
Fabio Colagrande – Città del Vaticano
Tra i cinque cardinali italiani che Papa Francesco creerà nel Concistoro del prossimo 27 agosto c’è anche un pastore che svolge da trent’anni il servizio episcopale dimostrando una spiccata attitudine per la dimensione sociale del suo mandato. È il piemontese Arrigo Miglio, che compirà ottant’anni il prossimo 18 luglio e non sarà quindi elettore al prossimo Conclave. A lungo presidente del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali dei cattolici italiani e membro della Commissione CEI per i problemi sociali e il lavoro, monsignor Miglio è attualmente arcivescovo emerito di Cagliari, diocesi che gli era stata affidata dieci anni fa e che ha retto fino al 2019 quando gli è succeduto mons. Giuseppe Baturi. Proprio quest’ultimo, accogliendo “con grande gioia”, a nome di tutta la comunità, la notizia della creazione a cardinale dell’arcivescovo emerito, ha sottolineato in un messaggio “la particolare passione che monsignor Miglio ha sempre mostrato nello studio e nella divulgazione delle scienze bibliche, nonché nell’impegno pastorale per la dimensione sociale dell’evangelizzazione”. Trascorse due settimane dall'annuncio della convocazione del concistoro, l’arcivescovo Miglio riflette - ai microfoni di Radio Vaticana - su quell’annuncio “a sorpresa” che, esponendolo all’attenzione della Chiesa e del mondo lo ha costretto - spiega - “a sentirsi più umile di prima” e a vivere la porpora nella prospettiva del servizio.
Cosa significa per lei sapere che il prossimo 27 agosto, circa un mese dopo aver compiuto ottant’anni, verrà creato cardinale?
Beh, per me la nomina è stata una sorpresa assoluta. Era l'ultima notizia che mi aspettavo di ascoltare. Ero a Cagliari, avevo terminato di celebrare delle cresime ed avevo accettato l'invito a pranzo di una famiglia amica. Lì, seguendo il Regina Coeli di Papa Francesco dalla televisione abbiamo avuto questa sorpresa… Cosa significhi per me, è una bella domanda. Direi che è ancora tutto da vedere. Io non ho programmi particolari, quello che la Chiesa riterrà di chiedermi cercherò con le mie forze di farlo. In ogni modo per me significherà continuare il mio servizio. Credo proprio che la parola giusta per vivere il cardinalato - soprattutto come una nomina che arriva da Papa Francesco - sia la parola "servizio". Quindi, per dirla con il gergo degli Scout, di cui sono stato a lungo assistente ecclesiastico, “cercherò di fare del mio meglio!”.
Vescovo prima ad Iglesias dal ‘92, poi a Ivrea dal 99’ e infine a Cagliari dal 2012: tutte diocesi in cui ha potuto esprimere la sua vocazione per la pastorale sociale… Si riconosce in questo ritratto?
Sì, direi di sì. In Sardegna, ad Iglesias, mi sono ritrovato fin dal giorno dell'ingresso in diocesi a dover gestire come vescovo la situazione delle miniere in crisi. Tutto il Sulcis Iglesiente, già di per sé zona assai povera, viveva in quegli anni la progressiva chiusura di tutte le sue miniere per via di un’economia che si stava trasformando. In quel contesto, il mio compito è stato quello di condividere. Mi ricordo che una volta dissi ai minatori che continuavano ad invitarmi a partecipare alle loro manifestazioni che io non ero in grado di dargli soluzioni. Ma loro mi risposero che non era importante, gli bastava sapere che ero loro vicino. Così ho fatto: pregando, condividendo e cercando di incoraggiare, di dare speranza, nonostante tutto. Poi sono tornato nel mio Piemonte, ad Ivrea, una zona industriale, dove c’era tutta un’altra situazione, ma anche lì le cose stavano mutando rapidamente. La fine della grande avventura dell’Olivetti, quindi lo smarrimento di tutta la popolazione del Canavese che per settant’anni aveva vissuto questa ricchezza, questa opportunità. Infine Cagliari, in un contesto totalmente diverso, nella città capoluogo della Sardegna, dove ho vissuto soprattutto gli anni dell'accoglienza dei profughi che arrivavano dal mare. Molte navi, con a bordo sei-settecento persone che attraccavano in quel periodo al porto di Cagliari. Lì, devo dire, ho trovato una Caritas meravigliosa che, con tutte le altre forze di volontariato della diocesi, davvero svolgeva un bellissimo servizio. Mi ricordo in particolare una festa del Corpus Domini in cui dalla Cattedrale siamo andati al porto, con la processione, proprio per far sentire la presenza dell'amore del Signore ai nuovi arrivati, ai poveri e ai profughi e anche a chi li accoglieva, non senza sacrificio.
In particolare, proprio nel territorio del Sulcis-Iglesiente, in Sardegna, come pastore si è speso più volte per sostenere i lavoratori delle miniere. Cosa succedeva?
Intanto, in quel momento, il primo tema che mi sono trovato ad affrontare era sostenere la lotta dei lavoratori, che era un’azione importante, ma senza confonderla con la violenza. È stata il primo equivoco che ho dovuto affrontare. Quindi, no assolutamente a ogni forma di violenza, ma invece sì alla lotta per rivendicare i diritti giusti e anche per mettere sempre al centro la dignità della persona umana. Così questo è diventato anche un momento di evangelizzazione. perché la dignità della persona noi la impariamo dal Vangelo, la impariamo da Gesù, dalla sua Croce e della sua Risurrezione. Questo è stato un po' un filone di pensiero che ho cercato di seguire fin da subito. Poi c’è stata la necessità di aiutare le famiglie in crisi, quella di cercare di mantenere l'unità di tutta la comunità diocesana e di non far crescere divisioni inopportune e assurde. Ma, come ho accennato prima, la cosa più importante è stata mostrare come vescovo la vicinanza personale a questi lavoratori. Guardarci in faccia con i minatori, qualche volta anche attraverso le reti che chiudevano le miniere. Dentro c'erano gli occupanti e fuori c'ero io. Ricordo che nel ’92 e poi ho ancora nel ’94 ho celebrato la Messa nella notte di Natale con i minatori affacciati dalla rete che chiudeva l'ingresso delle miniere. Ecco, in quei giorni era soprattutto importante sentirci vicini, chiamarci per nome e capire che la Chiesa condivideva le loro sofferenze.
Oggi, nell’epoca della globalizzazione, con il mondo che ancora lotta con la pandemia, come sono cambiate le sfide della pastorale sociale?
Mi rifaccio all'ultima Settimana sociale dei cattolici italiani a cui ho partecipato, come semplice iscritto e non più come responsabile, quella di Taranto. Lì ho sentito davvero qual era il nervo scoperto: la necessità di posti di lavoro e al contempo la salvaguardia dell'ambiente e, ancor prima, della salute. Tutti temi per i quali l’Enciclica Laudato si’ ci offre occasioni di riflessione e un invito a trovare un equilibrio. Questa, che dieci anni fa era sicuramente meno sentita, mi pare oggi la grande sfida. Penso alla Settimana sociale di Reggio Calabria, eravamo nel 2010, quando si rifletteva su un’agenda per l'Italia, o penso a quella di Torino nel 2013, dove si rifletteva sulla famiglia. Quest’ultimo tema, in particolare, si sta dimostrando sempre attuale. Nove anni fa siamo stati un po' snobbati dei media e sembrava che la famiglia fosse un tema troppo “cattolico”. Invece è un tema “laico”, che riguarda il bene comune e oggi ci rendiamo conto della crisi demografica e di tutti gli altri problemi che mettono in sofferenza il mondo delle famiglie, comprese le divisioni e l'instabilità. È incredibile come anche partendo dai temi sociali alla fine si arrivi al tema dell'amore, al senso della Croce. Oggi sempre più questi temi non sono più di nicchia, soltanto per appassionati della dottrina sociale della Chiesa, ma coinvolgono tutti, come da tempo in effetti si era capito.
Come il magistero di Papa Francesco, appunto, con la Laudato si’ e la Fratelli tutti, ha riorientato la dottrina sociale cattolica?
La prima prospettiva è proprio quella che stavo spiegando. Anche grazie a questi documenti, questi temi non appartengono più solo agli specialisti della dottrina sociale della Chiesa, come purtroppo è stato per un lungo periodo. Se guardiamo ai documenti della Chiesa, tutto il magistero sociale è una chiamata rivolta a tutta la comunità cristiana a cogliere ciò che poi l’Evangelii gaudium, nel capitolo IV, ha presentato come la dimensione fondamentale dell'annuncio evangelico, del kerygma: quella sociale. La Fratelli tutti mi sembra poi ci abbia invitato a una condivisione sempre maggiore con tutta l'umanità. Siamo oggi chiamati a cercare il bene comune dell'umanità. Non è più soltanto un problema di dialogo interreligioso, ma siamo chiamati ad andare a fondo dell'identità della persona e della società. Ci vedo anche una bella sfida all’imperversare dell'individualismo: una spinta a passare dall'io al noi, dall’esagerazioni dell'io alla necessità di pensare sempre nella prospettiva del noi.
Francesco ricorda spesso ai cardinali che devono essere umili, perché la porpora non è un premio. È più difficile essere umili sapendo che presto si riceverà sul capo la berretta rossa?
Direi che in queste prime settimane che sono trascorse dall’annuncio è stato molto più facile per me sentirmi umile. Quando uno riceve una notizia così, si mette di fronte al Signore, che legge in fondo ai cuori e conosce tutte le sue fragilità, e si mette di fronte a tanti confratelli, a tanti uomini e donne cristiani che hanno speso la loro vita per la Chiesa. Dunque ci si sente davvero più piccoli. Forse per questo è più facile essere umili: perché con una nomina del genere si viene un po' esposti e allora ci si scopre tanto piccoli.
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