Bambino Gesù, oasi di accoglienza e cura
Benedetta Capelli e Svitlana Duckhovych - Città del Vaticano
E’ una mattinata afosa ma la vita frenetica del Bambino Gesù non conosce stagioni. C’è sempre il vociare dei bambini, il sorriso degli infermieri e dei dottori, la frenesia di chi lavora per dare una risposta, a volte dolorosa, ma offerta con delicatezza e cura. Mariella Enoc è la presidente della struttura, una colonna portante, rassicurante e ferma, conosce gli scenari di guerra e appena è scoppiato il conflitto in Ucraina non ha esitato a mettere a disposizione l’esperienza dell’ospedale del Papa e la sua personale. Con il tempo il sistema di accoglienza dei bambini ucraini e delle loro famiglie si è affinato. Ad oggi oltre 1100 piccoli sono stati assistiti.
Quale l’impegno del Bambino Gesù nei confronti della popolazione ucraina?
Quando sono arrivate le prime notizie della guerra e soprattutto dei bambini oncologici che non potevano più seguire le cure perché erano nei rifugi, il primo istinto proprio forte che mi è venuto è stato quello di mettermi in contatto col Ministero degli Esteri, con la Protezione Civile, con la Croce Rossa Internazionale per dare la nostra disponibilità, soprattutto per i casi più gravi, perché avendo questo ospedale particolari competenze, mi sembrava giusto affrontare anche le situazioni più difficili. Devo dire che l'inizio è stato molto morbido e i primi pazienti sono arrivati da soli attraverso aiuti e viaggi rocamboleschi che a raccontarli c’è da rabbrividire. Poi invece ha cominciato a funzionare il sistema della Protezione Civile, i nostri medici hanno fatto diversi viaggi per accompagnare i bambini sugli aerei militari, poi un'equipe è andata anche per fare il triage al confine con la Polonia in modo da capire anche quali bambini potessero venire qui o da altre parti e siamo arrivati a superare i 1100 bambini. Questi bambini certamente non sono stati tutti ricoverati, di questi abbiamo avuto una media costante di 40-50 ricoverati e sono stati messi nelle case famiglia insieme a chi li accompagnava e venivano poi a fare il day hospital o le visite ambulatoriali perché c'era anche bisogno che continuassero ad essere seguiti e quindi abbiamo veramente allertato tutte le case famiglia e poi a un certo punto la Regione ci è venuta incontro dandoci un albergo che è stato destinato ad ospitare le famiglie. Quando è venuto il presidente della Polonia ha portato 5 bambini e 18 accompagnatori, questo ci dice anche il numero che abbiamo sostenuto.
La sua storia si intreccia anche con scenari difficili, pensiamo ad esempio a Bangui, all’Africa, come guarda a questa guerra in Ucraina, conoscendo anche le testimonianze di tante donne sole che avete accolto e di questi bambini in sofferenza…
Io ho visto tanti bambini feriti dalle guerre, è sempre una guerra. Non le posso dire che quando in Siria ho incontrato i bambini con il corpo bruciato al 70 80% e neppure trasportabili qui, siamo riusciti a farne venire 1 o 2 altrimenti non potevano rientrare, è stato un impatto, un dramma fortissimo. Pensiamo poi ai bambini in Africa che venivano feriti a colpi di fucile, quindi purtroppo la guerra rende tutti uguali in qualche misura, sia i vincitori che i vinti, anche se in una guerra non ci sono mai vincitori. Questa è una guerra vicina, noi li abbiamo visti più direttamente i bellissimi bambini ucraini senza un braccio, con la testa piena di residui di bombe a grappolo, effettivamente è distruttivo, però è distruttivo in ogni parte del mondo. Quando ho visto il primo bombardamento a Mariupol ho pensato se fosse successo qui, come avremmo vissuto. Per me è stata una esperienza di guerra come ne ho viste altre, per esempio la Siria mi ha particolarmente toccata.
Papa Francesco è stato qui dai bambini, ha inviato un biglietto ringraziando il Bambino Gesù, in che modo il suo appoggio e il suo sostegno la motivano nella sua attività quotidiana?
Quando sono cominciati ad arrivare i primi bambini, ho mandato un piccolo messaggio a Francesco dicendogli che c’erano i bambini ucraini e se voleva passare a fargli una carezza. Al mattino mi ha mandato un'email dicendomi che non sapeva se riusciva e poi invece alle 4 mi ha telefonato perché stava arrivando. E’ un po’ nel suo stile, ma è venuto perché effettivamente sentiva, secondo me, questo desiderio di dare una testimonianza di vicinanza al popolo ucraino attraverso i loro bambini. Gli abbiamo fatto incontrare una decina di bimbi, casi anche molto gravi, amputati, tumori cerebrali, non dimentichiamo che lì c’è stato anche l’incidente di Chernobyl tanti anni fa ma purtroppo gli effetti si vedono ancora. E’ stata una visita come quelle che fa lui, piene di empatia, di silenzio, di abbracci non si faceva neanche molto raccontare cosa era successo perché noi abbiamo dovuto anche placare tutto questo perché le persone che arrivano in quelle condizioni non avevo alcuna voglia di raccontare cos'era successo. Quindi bisogna essere anche molto attenti a questo aspetto. Lui naturalmente lo e già sempre quindi lo è stato, i bambini erano anche contenti, c’era un bambino al quale avevano regalato un fonendoscopio di plastica e visitava tutti e voleva visitare anche il Papa, perché poi i bambini ritornano ad essere bambini. Qualcuno però era molto molto spaventato che quasi non si lasciava neanche accarezzare, abbiamo avuto una bambina che per giorni è rimasta immobile a guardare il soffitto, quindi su questi piccoli anche lui poteva proprio fare una carezza. Però è stato molto bello perché in fondo o è venuto a trovare i più fragili, interessandosi non alla loro storia ma al loro vissuto, li incoraggiava sapendo che sarebbero stati accolti al meglio. Con me ha rivelato il suo dolore, quello che tutto questo gli muoveva dentro, cercando di non dimostrarlo troppo coi bambini e mostrandosi sempre sereno.
Irena e la gratitudine
Irena a Kiev era un’insegnante di musica, mamma sola di Hryhoriy che ha 13 anni. “Siamo arrivati in Italia il 21 marzo. I nostri vicini ci hanno aiutati ad evacuare da Kiev. Non potevamo rimanere lì perché sentivamo le esplosioni, dovevamo nasconderci nelle cantine. Le sirene suonavano dalla mattina alla sera, anche di notte. È stato difficile supportare tutto questo”. E’ un dolore che si aggiunge alla preoccupazione per la salute del figlio. “Lui è malato e quando sentiva le esplosioni, mi chiedeva se fossero i fuochi d’artificio. Per tranquillizzarlo dovevo dire di si. Per questo ho deciso che dovevamo partire, in due ore abbiamo fatto le valige e siamo partiti per Rivne, nel nordovest dell’Ucraina. Lì ci hanno accolto le persone molto buone e ci hanno ospitati per dieci giorni. Durante questo tempo ci hanno messo in contattato con l’Italia e grazie al supporto della fondazione caritatevole Timosha’s smile, siamo arrivati all’ospedale Bambino Gesù”.
L’arrivo è nel segno dell’accoglienza in famiglia. I medici e gli operatori sanitari – racconta Irena – hanno usato amore, premura e comprensione. “Hryhoriy ha gravi problemi con la respirazione, a Kiev ci hanno detto che in qualsiasi momento, soprattutto la notte, poteva soffocare, per questo per anni non abbiamo dormito nel timore di non capire quando aveva difficoltà di respirare. Quando non stava bene chiamavo l’ambulanza”. I medici ucraini però non hanno più mezzi, dicono ad Irena che è inutile portare lì il figlio, non ci sono cure per lui. “Questo era successo prima della guerra e allora non sapevo più cosa fare, a chi rivolgermi. Dio ci ha ascoltati, le persone buone ci hanno ascoltato e grazie a Dio ci troviamo qui. Adesso Hryhoriy è in cura, fa la chemioterapia. Questo è un sogno. Le medicine aiutano, ci sono cambiamenti positivi. Brava Italia, bravi i medici, il nostro amore è verso il Bambino Gesù”.
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