Un pellegrinaggio penitenziale
ANDREA TORNIELLI
Non era mai accaduto, durante il suo pontificato quasi decennale, che Francesco definisse un suo viaggio internazionale come “pellegrinaggio penitenziale”. Proprio questa definizione, che il Papa ha utilizzato all’Angelus di domenica 17 luglio, fa comprendere le peculiarità dell’ormai prossima trasferta in Canada. Non innanzitutto un viaggio in un Paese, né una visita con il fine principale di incontrare le comunità cattoliche, ma piuttosto un gesto concreto di vicinanza nei confronti delle popolazioni indigene che abitano quella terra e che hanno sofferto le conseguenze degli atteggiamenti colonialisti. Uno dei mali del colonialismo è rappresentato dal tentativo di cancellare le culture dei popoli originari, realizzatosi nelle cosiddette “scuole residenziali”, istituti che hanno cercato di “educare” e “istruire” i figli degli indigeni con dure discipline separandoli dalle loro famiglie. Queste scuole, che registravano un tasso di mortalità molto elevato, erano state istituite dal governo canadese, che le finanziava, ma la loro gestione era affidata a realtà delle Chiese cristiane e dunque anche a ordini religiosi cattolici.
Il cammino di guarigione e riconciliazione è iniziato da tempo e una tappa fondamentale sono stati gli incontri avvenuti a Roma tra fine marzo e i primi di aprile, quando Francesco ha incontrato prima separatamente e poi tutti insieme i gruppi delle First Nations (“Prime Nazioni”), dei Métis (“meticci”) e degli Inuit, esprimendo loro “indignazione e vergogna” per quanto accaduto. Le popolazioni indigene si sono sentite accolte e soprattutto ascoltate. Ma desideravano molto che il Vescovo di Roma visitasse le loro terre e chiedesse perdono.
La chiave di lettura del viaggio sta dunque tutta nell’atteggiamento penitenziale che ne caratterizzerà i momenti salienti. È lo stesso atteggiamento che nel 2010 suggerì Benedetto XVI di fronte allo scandalo degli abusi sui minori; lo stesso che propose san Giovanni Paolo II durante il Giubileo del 2000 per la “purificazione della memoria”, quando chiese “un atto di coraggio e di umiltà nel riconoscere le mancanze compiute da quanti hanno portato e portano il nome di cristiani”, fondato sulla convinzione che “per quel legame che, nel corpo mistico, ci unisce gli uni agli altri, tutti noi, pur non avendone responsabilità personale e senza sostituirci al giudizio di Dio, che solo conosce i cuori, portiamo il peso degli errori e delle colpe di chi ci ha preceduto”.
Saper ascoltare mettendosi nei panni delle vittime e dei loro familiari, condividerne il dolore e comprenderlo, rispondere con gesti di prossimità e non soltanto con le analisi storiche o la freddezza delle statistiche, è profondamente cristiano. Il Successore di Pietro, viene “nel nome di Gesù per incontrare e abbracciare” come pastore di una Chiesa che non si vergogna a mostrarsi umile e a chiedere perdono.
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