Nove mesi di guerra: una ferita che ci riguarda come cristiani
ANDREA TORNIELLI
Ci stiamo avvicinando allo scadere del nono mese dall’inizio dell’orribile guerra di aggressione da parte della Russia all’Ucraina. Nove mesi è il tempo in cui una vita umana prende forma nel grembo materno per poi venire alla luce, ma quella in Ucraina non è stata una gestazione di vita, bensì soltanto di morte, di odio, di devastazione.
C’è un aspetto di questa guerra del quale non sempre ci ricordiamo: si tratta di un conflitto che coinvolge due popoli appartenenti alla stessa fede in Cristo e allo stesso battesimo. Il cristianesimo in quell’area geografica è associato al battesimo della Rus’, completato nel 988 quando Vladimiro il Grande, volle che la sua famiglia e la popolazione di Kiev ricevessero il sacramento nelle acque del Dnepr. I cristiani russi e ucraini condividono la stessa divina liturgia e la stessa spiritualità propria delle Chiese orientali.
Oggi si tende a nascondere questa comune appartenenza di fede e di tradizione liturgica per ragioni legate alla propaganda bellica: quando combatti, quando uccidi, devi dimenticare il volto e l’umanità dell’altro, come ricordava il profeta di pace don Tonino Bello. E devi persino dimenticare che l’altro ha lo stesso tuo battesimo.
Il fatto che quella scoppiata nel cuore dell’Europa sia una guerra tra cristiani rende ancor più dolorosa la ferita per i seguaci di Gesù. Non ci troviamo di fronte a un conflitto da classificare nel comodo schema dello “scontro di civiltà”, teoria divenuta famosa dopo gli attentati di matrice islamista dell’11 settembre 2001 per marcare le differenze tra “noi” e “loro”. No, qui gli aggressori leggono lo stesso Vangelo degli aggrediti.
Lo sgomento suscitato da questa constatazione potrebbe portarci a riflettere su quanta strada debba ancora fare il messaggio evangelico per entrare nel cuore dei cristiani e permeare la loro cultura, così da incarnare l’esempio di Gesù che nel Getsemani intimò a Pietro di rimettere la spada nel fodero. Potrebbe persino indurci a salire sul pulpito giudicante e rassicurante di chi vuol marcare la diversità fra il “nostro” cristianesimo e quello dei guerrafondai che mescolano le icone sante ai labari dei soldati giustificando aggressione e violenza con discorsi religiosi, come facevamo anche noi fino all’altro ieri e come forse qualcuno desidererebbe fare anche oggi.
Ma questo atteggiamento sarebbe per noi soltanto una comoda via di fuga, una forma di auto-assoluzione per non mantenere aperta la ferita generata da questa guerra.
Il conflitto in corso in Ucraina ci insegna invece che l’appartenere a una tradizione comune, il richiamarsi a un’identità e a una cultura originate dallo stesso annuncio evangelico, non bastano a preservarci dallo scivolare nella barbarie della violenza, dell’odio, della guerra assassina.
Mantenere la ferita aperta significa allora ricordare ogni giorno che la nostra fede e le nostre tradizioni religiose non possono mai essere date per acquisite e per scontate. Significa ricordare che possiamo agire da cristiani solo per grazia, non per tradizione o cultura. Significa ricordare le parole di Gesù: “Senza di me non potete far nulla”, per tornare ad essere umili mendicanti di Lui, vivo e presente oggi, e della sua pace.
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