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L'udienza del processo sulla gestione dei fondi della Santa Sede nell'Aula polifunzionale dei Musei Vaticani (foto d'archivio) L'udienza del processo sulla gestione dei fondi della Santa Sede nell'Aula polifunzionale dei Musei Vaticani (foto d'archivio)  (VATICAN MEDIA)

Processo vaticano, ancora testimoni dell’accusa: a Londra investimenti sbagliati

Nell’Aula dei Musei Vaticani, la trentacinquesima udienza del processo per la gestione dei fondi della Santa Sede. Interrogati Giuseppe Milanese, presidente di Osa, e Robert Lee Madsen, senior advisor della Segreteria per l’Economia, sulla vicenda che ha portato alla compravendita del Palazzo di Sloane Avenue

Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano

Il presidente della cooperativa Osa, l’ex direttore amministrativo del Bambino Gesù e un senior advisor della Segreteria per l’Economia sono stati i tre testimoni chiamati oggi dall’accusa per la trentacinquesima udienza del processo per la gestione dei fondi della Santa Sede. Udienza di poco più di tre ore, sempre nell’Aula polifunzionale dei Musei Vaticani, incentrata principalmente sulla compravendita del Palazzo di Londra.

Interrogatorio a Milanese 

Il primo teste interrogato è stato Giuseppe Milanese, infettivologo e presidente della cooperativa Osa (Operatori Sanitari Associati), dedita all’assistenza di persone non autosufficienti nel campo sociosanitario. Il medico era stato citato come persona vicina al Papa da Fabrizio Tirabassi, ex impiegato dell’Ufficio amministrativo della Segreteria di Stato, ora imputato. Milanese è tra i personaggi totalmente estranei ai reati contestati che sono stati ascoltati durante le indagini. Tra questi, anche l’avvocato Emanuele Intendente e Renato Giovannini, vice rettore dell’Università Telematica Marconi. Proprio quest’ultimo informò Milanese verso la fine del 2018 della compravendita del palazzo londinese di cui il presidente di Osa non era neppure a conoscenza.

I cavalieri bianchi e i cavalieri neri

Giovannini e Intendente diedero a Milanese una loro “versione” dei fatti. E cioè che, da una parte, c’erano i “cavalieri bianchi”, cioè loro due più Gianluigi Torzi, il broker imputato al processo, e dall’altra, i “cavalieri neri”, quelli che avrebbero messo in piedi un “sistema di malaffare” da smantellare. Ovvero Tirabassi e il finanziere Enrico Crasso, imputato, storico consulente della Segreteria di Stato. In sostanza, l’idea era che Torzi avrebbe potuto portare una soluzione al “problema” del Palazzo che aveva fatto perdere “somme importanti” alla Santa Sede, la quale era però “ostacolata” nel concludere l’affare. La fase di cui si parla è quella del passaggio dal fondo Gof di Raffaele Mincione (imputato) al Gut di Torzi, il quale – com’è noto - mantenne mille azioni con diritto di voto che gli davano il controllo assoluto dell’immobile e che chiese alla Santa Sede circa 12 milioni di euro (dagli iniziali 3 stabiliti) per uscire dall'affare.

Eventuali "danni importanti"

Qualora “fosse saltata l’operazione, il Vaticano avrebbe avuto danni importanti”, ha detto Milanese. Da lui si cercava “un sostegno” per una soluzione: “Il primo aiuto che potevo dare – ha detto in aula - era dipanare la matassa”. Nulla più. Per questo in un’occasione inviò un messaggio al sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Edgar Peña Parra, dicendo che non si capiva più “chi sono gli amici e chi i nemici”: “Il sostituto cercava di comprendere, era abbastanza preoccupato di una situazione di cui non si veniva a capo”. Per lo stesso motivo, quando a Milanese fu chiesto di partecipare alle riunioni di Londra per la firma del contratto di passaggio al Goff, rifiutò dicendo che “non aveva senso che partecipasse un medico in questioni dove serviva un avvocato”.

Dal 5 gennaio 2019, dopo diverse riunioni, discussioni e appunti presi “su fogli di cartone”, il medico si è tirato fuori da tutta la vicenda. “Mi sembra di capire di essere stato strumentalizzato probabilmente per la mia amicizia con il Santo Padre”, ha affermato. “Mi duole di averla messa in piazza, ma penso di essere stato chiamato non come esperto ma come amico del Papa”.

Breve esame a Perno

In aula è stato ascoltato poi per pochi minuti Antonio Perno, ex direttore amministrativo del Bambino Gesù, che ha assicurato di non aver mai ricevuto proposte di acquisto di un immobile a pochi passi da San Pietro per allargare gli spazi “saturi” dell’ospedale.

Le dichiarazioni di Madsen 

È durato invece circa un’ora l’esame a Robert Lee Madsen, 80 anni, 50 di esperienza nel mondo della finanza, prima responsabile degli investimenti all'Apsa, chiamato poi nel 2015 dalla Segreteria per l’Economia come senior advisor. L’esperto statunitense ha parlato degli incontri in Segreteria di Stato con Tirabassi e l’allora responsabile dell’Ufficio Amministrativo, monsignor Alberto Perlasca, e i gestori che venivano a rappresentare possibilità di investimento: “Lavoravano bene, con prodotti standard, una tipologia non aggressiva”. Tirabassi, con cui c’era “una buona collaborazione”, gli chiese una consulenza per l’ipotetico affare sul petrolio in Angola con il fondo Centurion di Raffaele Mincione (imputato). “Mi diede l’impressione che qualcuno sopra di lui chiedeva di informarsi”, ha spiegato, “dissi proprio no”. L’esperto finanziario ha parlato poi di un “piano di rientro” che propose a Tirabassi e Perlasca a fronte di un “indebitamento” della Segreteria di Stato pari quasi a 212 milioni.

Investimenti immobiliari

Gli avvocati di parte civile hanno chiesto conto a Madsen di alcune parole riferite in un verbale sul fatto che Peña Parra fosse stato “ingannato” e che quello di Londra era stato un “macello”. “Parlai con il sostituto un paio di volte, dissi che era stato fatto uno sbaglio e che doveva far studiare la questione da persone indipendenti, non le stesse che avevano creato il problema”. Il riferimento era a Perlasca e Tirabassi, “non esperti” nel settore immobiliare di cui bisogna conoscere “le regole del gioco”.

Madsen ha fatto anche cenno all’acquisto di un immobile sempre a Londra, ma in High Street Kensington, effettuato tra il 2016 e il 2017 dall’Apsa al 51% e dal Fondo Pensioni al 49%. Circa 90 milioni a testa, è stato detto. Entrambi gli enti erano presieduti allora dal cardinale Domenico Calcagno. Il cardinale George Pell, ex prefetto della Spe, si era “opposto” fermamente: “Perché il Fondo Pensioni deve pagare il 49% quando deve pensare a pagare le pensioni?”, avrebbe detto il porporato, secondo quanto riportato dal teste. Che sull’esito dell’investimento ha affermato di non avere “dati specifici”, ma di ricordare che il risultato non fu positivo.

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10 novembre 2022, 18:45