Izyum, viaggio nell'inferno della guerra
Salvatore Cernuzio - Inviato a Izyum (Ucraina)
“Ditelo a tutti: la guerra fa schifo”. Le parole dette 'di pancia' da un’anziana signora in giro per le strade di Izyum con pelliccia e bastone sono probabilmente l’unico commento possibile dinanzi al grande mistero del male compiuto da un uomo verso un altro uomo. Il male che ha la forma delle corde usate per torturare, delle stanze sotterranee di 15 mq in cui chiudere fino a otto persone costringendole a fare gli escrementi in un lavandino, la forma delle mine poste sotto i 447 cadaveri seppelliti in una fossa comune per impedire che i parenti rimuovessero i corpi. Se la brutalità del conflitto in Ucraina ha un nome, quello è Izyum. “Un concentrato di crimini di guerra sui quali sono in corso approfondimenti delle organizzazioni internazionali per i diritti umani”, chiariscono le autorità militari e civili ai giornalisti in missione con le Ambasciate polacca e ucraina presso la Santa Sede.
Teatro di devastazione
Sud-est dell’Ucraina, sul fiume Donets, temperatura sotto i 4 gradi, Izyum, occupata i primi di marzo e liberata il 10 settembre, è divenuta teatro di torture, devastazione, deportazioni. La città dista solo due ore da Kharkiv, altro centro tristemente noto per l’esplosione di uno dei mercati più grandi d’Europa. A differenza di Kharkiv, però, dove in poco tempo si è proceduto alla ricostruzione e dove si vede la gente andare in chiesa e nei negozi, a Izyum le ferite della guerra sono del tutto evidenti. E non si tratta solo di palazzoni anneriti e sventrati, di voragini create dai missili nelle strade e neppure di case di cui è rimasta solo la facciata. L’orrore della guerra è nei dettagli. Come la giacca e la camicia che sventolano appese ad un armadio dal terzo piano di un palazzo in Vul Pershotravneva, spaccato in due da un razzo nei bombardamenti del 3-6 maggio. O come i peluche e i giochi dei bambini sotto il fango o ancora le foto di una coppia nel giorno del matrimonio che sbucano dalle macerie dello stabile di fronte. In realtà era un unico grande palazzone dall’architettura tipicamente sovietica che il missile ha diviso in due monconi.
Bombardamenti
Dal portone della parte destra sbuca una donna con un carrello della spesa. Avrà recuperato i propri oggetti, ma è più probabile che abbia preso per necessità qualcosa rimasta tra polvere e terra. Magari uno dei cappotti conservati ancora nelle stanze annerite dal fumo. Chissà di chi erano, ci si domanda. Come pure si rimane a guardare la bustina di medicinale vicino a un bicchiere d’acqua, chiedendosi se l’uomo o la donna che l’aveva aperta ha fatto in tempo a ingerirla prima che i missili piombassero sul palazzo. E chissà chi giocava sullo scivolo del parco giochi di fronte. Forse i due bambini morti nell’esplosione: “Uno era del 2016, l’altro del 2019”, spiega un poliziotto. Abbastanza grandi per giocare da soli, troppo piccoli per morire insieme ad altre 51 persone. “Sono stati rinvenuti sotto le macerie”.
Prigionia
Altri corpi senza vita sono stati ritrovati in centro città, nei sotterranei della vecchia centrale di polizia dismessa dopo la ristrutturazione della nuova stazione. L’edificio è rimasto agibile. E i soldati russi se ne sono appropriati durante l’occupazione, come si vede dalle scritte azzurre in cirillico e dalla fila di casseforti usate come barricate, con mattoni e sacchi di sabbia. L’interno è così buio da annebbiare ognuno dei cinque sensi. Tranne l’olfatto, subito insidiato da un forte odore di fogna, muffa e fumo ristagnato. Dal soffitto pendono corde e fili elettrici, sotto gli scarponi si frantumano vetri e si schiacciano pacchi di Marlboro. Il corridoio centrale conduce ai sotterranei. “Ecco – spiega il capo della polizia locale, Dmytro Hranchak – qui tenevano i prigionieri”.
Torture
Undici le stanze con le porte di ferro color ruggine, un centinaio i reclusi, sette o otto per stanza a dividere due letti e il lavandino usato come Wc. All’interno si scorgono coperte, stivali, una giacca a vento, un boxer appeso al muro. Poi libri, orologi, taniche con acqua gialla. Erano tutti civili ma anche prigionieri militari, conferma il prosecutor della War Crimes, Mykola Pemenziev: “Ci sono prove di sei donne stuprate”. Più giù una camera ha i muri rivestiti da cartoni di uova. Servivano a insonorizzare. Cosa? “Katuvannya!”, esclamano le guide. “Torture”, fatte per ottenere informazioni da parenti di soldati al fronte, segnalati in specifiche liste. C’è chi ha resistito, chi ha parlato, chi è deceduto.
Fosse comuni
Alcuni cadaveri sono stati lasciati nei sotterranei, il resto, insieme a vittime di bombardamenti e azioni militari, trasportato a 14 minuti fuori da Izyum, nella Shakespeare Sreet dove sorge il cimitero cittadino. Lì si cammina su una fanghiglia da cui si ergono croci di legno, cattoliche e ortodosse. Fino a settembre sotto quel terreno erano seppelliti 447 corpi: 425 civili, 22 soldati. Ora il terreno è stato sminato e i cadaveri rimossi. Girando si notano bare aperte, nomi incisi, immaginette e qualche foto. Come quella di Natasha, 87 anni. Alcune croci riportano invece solo numeri: 369, 125… Sono i senza nome la cui salma non è stata identificata, in alcuni casi perché troppo sfigurata, spiegano le autorità.
Ricostruire in fretta
“La guerra fa schifo”. Le parole della donna risuonano nella testa. E si aggiungono a quelle di Roman Semeukha, vice capo dell’Amministrazione militare regionale, sull’urgenza di “avere materiale per pavimenti, finestre, tetti. Dobbiamo ricostruire in fretta perché speriamo che in primavera possano tornare le persone andate via”. Si parla di 25 mila abitanti fuggiti, su 50 mila prima dell’aggressione.
Il murales del Cosacchetto
Intanto dalla piazza centrale, tra la neve e il ghiaccio che fa pattinare sui marciapiedi, si intravede un’immagine fuori contesto e che in qualche modo regala speranza. Sulla parete destra di quello che era l’ufficio del sindaco, due ragazzi su un montacarichi dipingono un murales. È il Cosacchetto, personaggio dei cartoon popolare tra i bambini ucraini degli anni ’60 e ’70. Raffigura un eroe leggendario del XV-XVI secolo. Il gesto è simbolico: prima degli edifici, a Izyum si vuole ricostruire la mascotte della nazione. Si vuole ricostruire l’identità.
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