Quando il teatro illumina la vita nelle carceri
di Dario E. Viganò
"Tutti sbagliamo nella vita, ma l'importante è non rimanere sbagliati”. Lo ha detto Papa Francesco nell’ottobre del 2021 incontrando un gruppo di detenuti ed ex detenuti di alcune Comunità di don Oreste Benzi, Papa Giovanni XXIII. In quell’occasione Francesco ricordava che occorre “sempre camminare”, e se si fa fatica farlo da soli è bene chiedere la mano di qualcuno.
Una riflessione che sembra trovare nuovamente eco in questi giorni nel film di Riccardo Milani “Grazie ragazzi”, una commedia sociale che mette a tema il mondo delle carceri italiane, dove tra le giornate che si ripetono grigie e immobili irrompe il teatro a scompaginare le esistenze e ad avviare un possibile percorso di riscatto. Protagonista è un trascinante Antonio Albanese, che interpreta un attore finito in bolletta e costretto a tirare avanti facendo il doppiaggio di film erotici. Quando gli viene proposta l’opportunità di condurre un laboratorio teatrale in un carcere, un po’ tentennante decide di rimettersi in gioco, ritrovando così l’amore per il proprio lavoro, la sua vocazione, grazie all’incontro con alcuni detenuti. Insieme mettono in scena il teatro dell’assurdo, il testo “Aspettando Godot” di Samuel Beckett, metafora di vite bloccate in attesa di cambiamento.
Albanese, fine interprete di ruoli tra commedia e dramma
Nel solco dell’opera di Milani “Grazie ragazzi”, nelle sale dal 12 gennaio con Vision Distribution, ritrovo Antonio Albanese, apprezzato e conosciuto nel 2007 per il film “Giorni e nuvole” di Silvio Soldini, che ho potuto premiare quando ero presidente dell’Ente dello Spettacolo e direttore della “Rivista del Cinematografo”. Antonio Albanese è un fine interprete di tali spartiti narrativi, che si giocano tra commedia e dramma, particolarmente abile nell’usare la cifra comica, persino lo sberleffo, per far risuonare cortocircuiti dell’umano o dolori sottotraccia nel quotidiano. Oltre a “Giorni e nuvole”, ripercorrendo la sua trentennale carriera sullo schermo, il pensiero va a “La lingua del santo” (2000) di Carlo Mazzacurati, a “L’intrepido” (2013) di Gianni Amelio così come ai due episodi di “Come un gatto in tangenziale” (2017, 2021) sempre di Milani e con Paola Cortellesi, un’istantanea sociale potente ed esilarante che ha frantumato barriere e stereotipi tra centro e periferia.
Con “Grazie ragazzi” l’anno cinematografico si apre nel segno di una commedia che mette a tema il mondo delle carceri e una scommessa artistica. Antonio, come è nato il progetto?
Mi ha chiamato il produttore Carlo Degli Esposti, della Palomar, e mi ha proposto questa storia. È una storia vera, risalente a circa 40 anni fa in Svezia. La vicenda è quella di un regista in crisi non solo professionale ma anche esistenziale che deve affrontare, con quattro detenuti in un carcere di massima sicurezza, questo incontro di grande umanità. Come per il protagonista della storia, anch’io non avevo grandi esperienze all’interno delle carceri. Certo, ho visitato alcune strutture come, ad esempio, il carcere femminile della Giudecca o altre nelle quali sono stato invitato come ospite. Il film nasce, dunque, dall’invito di Carlo Degli Esposti a cui ho dato seguito leggendo e, come faccio io per deformazione professionale, immedesimandomi nel personaggio. E mi sentivo pieno di gioia. Mi sentivo felice nell’interpretare questo personaggio, perché è molto vicino a me in un certo senso. Un personaggio, cioè, che cerca la verità e così mi sono innamorato subito della storia.
Una commedia dal finale amaro…
Anzitutto la commedia, mi permetto di dire, è un genere molto difficile; ogni volta è una bella sfida, perché si attraversa un filo molto sottile. E poi è un genere assolutamente interessante a livello recitativo. Il finale amaro: è la conclusione che rispetta il progetto originario, un finale che appartiene alla storia vera. Infatti, un’ora prima della magnifica rappresentazione, i detenuti coinvolti in questo progetto scappano perché a loro non viene data la possibilità di un leggero sconto di pena, non si lascia intravvedere il segno, anche piccolo, di un percorso premiante. Scappano perché si sentono liberi grazie al teatro e si ritrovano liberi anche di poter scappare. Questa è la storia originaria. Lo spettacolo nasce perché il regista svedese, quando esce sul palco e confessa al pubblico che i ragazzi sono andati via, esegue un monologo finale sull’esperienza che lui ha avuto con questi detenuti. Da quel monologo realizza poi uno spettacolo teatrale che trova consensi in molti Paesi europei.
Il film, targato Palomar, Wildside in collaborazione con Sky, Prime Video e Teodora Film, sembra un passaggio di testimone con i fratelli Paolo e Vittorio Taviani e il loro film “Cesare deve morire” (2012): il teatro come terapia dell’anima, come via di riscatto. Che ne pensi Antonio?
Io sono un caso più unico che raro, come dice mia figlia. Io ho un’estrazione sociale operaia meravigliosa. Mio padre ha lavorato tutta la vita come operaio e mia madre è sempre stata casalinga. Non c’erano possibilità economiche e così mi sono ritrovato a 15 anni a entrare in una fabbrica. L’occasione per crescere ed aprirmi alle cose belle della vita mi è arrivata dopo sette anni, proprio grazie al teatro che per me è stato salvifico. Io non solo sono stato educato dal teatro, ma credo anche di essere stato salvato. Per me la cultura, che sia un libro o dieci libri, che sia uno sguardo o la capacità di osservare, è fondamentale per ogni persona, per ogni essere umano. La cultura è un aiuto verso gli altri. È come un abbraccio: una persona che riesce a trasmettere cultura è una persona che riesce ad abbracciare gli altri, a donare e a offrire benessere agli altri, non solo intellettuale ma anche fisico. La cultura, e per me in particolare il teatro, ma anche la pittura e le altre forme d’arte, mi hanno proprio migliorato, mi hanno aiutato in tutto e per tutto. E io lo posso dire perché ero un po’ lontano da tutto questo. Anche se in ogni paesello di questa nostra meravigliosa Italia noi siamo circondati da cultura, quindi da bontà perché c’è gente che ha lavorato per rendere il nostro quotidiano migliore. Per me questa è bontà. Un essere umano che trasmette cultura è un essere buono.
Il teatro ha proprio a che fare con il corpo…
Assolutamente sì. E questo ci fa entrare anche nella crudeltà del nostro mondo teatrale. Il teatro è corpo, perché ogni corpo è uno strumento. Io poi sono un attore che lavora prima di tutto e quasi sempre con il corpo. I miei autori dicono: per Antonio non dobbiamo scrivere, dobbiamo tatuarlo. A me piace molto questa definizione. E mi piace quando un autore dice: quando scrivo per Antonio non uso fogli ma tatuo il suo corpo.
In “Grazie ragazzi” i detenuti del carcere di Velletri sono chiamati a mettere in scena il teatro dell’assurdo, il testo “Aspettando Godot” (1952) di Samuel Beckett. Perché avete scelto questo testo?
“Aspettando Godot” appartiene alla vicenda da cui trae origine il film. Il regista della storia accaduta in Svezia, infatti, decide il testo dopo aver ascoltato più detenuti. A un certo punto capisce che può contare solo su quattro o cinque detenuti, pertanto, individua in “Aspettando Godot” il miglior copione possibile. È anche uno dei motivi che mi ha spinto ad accettare questo lavoro, perché “Aspettando Godot” è un testo senza tempo, è sempre di una attualità impetuosa. Non l’ho mai fatto a teatro, ma chissà un giorno. Non ho premura.
Questo copione che riverbero ha avuto nelle biografie dei detenuti con cui avete lavorato?
Essendo un testo molto difficile – è teatro dell’assurdo –, è stato accettato all’inizio in maniera un po’ scherzosa, poi con estrema profondità. In fondo è un modo per comprendere che la vita è un gioco, è una sfida. Un testo illogico a tratti, anche se ha una sua logicità impetuosa.
Il teatro come ancora di salvezza da una realtà immobile, spesso respingente, quella delle carceri. Come ti sei preparato per il ruolo?
Non ho avuto grandi esperienze di condivisione della vita carceraria, anche perché non è così semplice. Ho fatto ciò che faccio un po’ sempre, e che Eugène Ionesco icasticamente descrive con una battuta: “Come faccio a dire a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”. Ho pensato molto al personaggio e ho cercato di immedesimarmi il più possibile immaginando la solitudine e la disperazione di determinate figure che in un modo o nell’altro ero chiamato ad affrontare. Ho letto delle storie che grosso modo accostano a questa realtà e ho cercato, come faccio solitamente nella costruzione di personaggi, di avvicinarmi frase per fase, momento per momento, incontro per incontro, dosando le emozioni e provando a essere il più possibile aderente a quel personaggio.
Nel film tu sei spesso ritratto in treno, un pendolare con la grande città. La condizione esistenziale del protagonista Antonio sembra ugualmente altalenante, aiutando però gli altri, di fatto aiuta anche se stesso. È un po’ quello che succede a Giovanni in “Come un gatto in tangenziale”?
Anzitutto la scelta periferica è dettata dal fatto, molto concreto e reale, che un uomo, un attore, disoccupato, non si può più permettere di vivere in una città. Pensiamo ad alcune realtà come Milano e Roma: è difficile oggi, soprattutto se una persona vive una precarietà lavorativa, mantenersi e vivere lì. Pertanto, si cerca una situazione periferica, più abbordabile. Ma sia chiaro che non si tratta di un viaggio verso un luogo desolato ma un luogo più accessibile economicamente. Per il personaggio Giovanni in “Come un gatto in tangenziale” c’è qualcosa di diverso, all’incontrario. In “Grazie ragazzi” infatti troviamo un uomo che ha cercato di vivere il mondo della cultura di quella città e di quel Paese. In “Come un gatto in tangenziale” c’è invece un uomo che si avvicina con la politica; un uomo che si accosta a un suo opposto quasi per caso. Effettivamente c’è qualcosa di simile, ma qui in “Grazie ragazzi” mi sono calato con più fisicità, più presenza e meno come ascoltatore.
Ormai solido è il tuo sodalizio con Riccardo Milani. Insieme – senza dimenticare la bravissima Paola Cortellesi – avete realizzato quattro film: “Mamma o papà?”, “Come un gatto in tangenziale” (1, 2) e “Grazie ragazzi”. Ci puoi descrivere la vostra intesa?
Anzitutto noi continueremo ancora a lavorare insieme. C’è già un progetto che a me interessa. Riccardo Milani è un uomo profondamente onesto, è un uomo che nel suo lavoro ha una profonda onestà: non è condizionato da lobby e da un certo modo di rappresentazione che sembra debba dominare. Lui è profondamente sincero e quello che lui racconta a me interessa molto: gli estremi, i mondi che si incontrano, un certo tipo di umanità. Riccardo Milani soprattutto ama il cinema popolare. Popolare è una parola bella. Abbiamo passioni che condividiamo. A ben vedere sa essere anche molto duro, non molla un crostino, ma ormai tra noi due basta uno sguardo. Si è impossessato un po’ della mia anima, ama suonare i suoi lavori con il mio strumento o io mi sono innamorato della sua onestà e della sua voglia di raccontare il buonsenso alla gente, il cercare di aiutarsi. Lui, se posso osare, è un uomo evangelico.
Tu hai alle spalle 40 anni di carriera e circa 30 anni di attività davanti alla macchina da presa. Un bilancio sul tuo percorso? E quali sfide interpretative o di regia ancora ti mancano?
Per come sono partito, nel mio mondo, dallo zero più trasparente, sono particolarmente orgoglioso di quello che ho fatto. Di una cosa vado molto fiero: che in questi anni ho abbracciato il mio lavoro a 360 gradi, cioè ho fatto l’Accademia d’arte drammatica e poi ho scoperto la comicità, che per me è una delle forme d’arte più elevata, perché è come la lirica che comprende mille sfumature. E di un’altra cosa sono molto orgoglioso, di aver creato dei corpi e delle maschere che sono rimaste e oggi appartengono alla commedia dell’arte italiana come Cetto La Qualunque, Epifanio Gilardi, Ivo Perego. Ho raccontato in questi 30 anni il Paese, i suoi cambiamenti, come il Ministro della paura. Per esempio, ho sempre una voglia incredibile di lavorare (Antonio Albanese si esibirà al Teatro degli Arcimboldi di Milano dal 23 al 26 aprile 2023 con il suo nuovo spettacolo “Personaggi” n.d.r.). Stiamo preparando un nuovo spettacolo su un tema delicatissimo, il tema delle religioni. Si intitola “L’uomo che prega”. Abbiamo fatto una sorta di prova alla Scala, dove figura un uomo che è confuso. All’inizio quest’uomo si muove, fa dei gesti, crea delle posizioni, ma a un certo punto si ferma e dice: ho una gran voglia di pregare ma non trovo la posizione giusta. Una provocazione!
Una curiosità. Ritroveremo Giovanni e Monica di “Come un gatto in tangenziale” per un terzo capitolo? Lì la comicità è frizzante e acuta, i due protagonisti hanno polverizzato barriere sociali ingombranti. Non c’è centro o periferia, c’è una comunità aperta e includente.
Abbiamo parlato con Paola Cortellesi e con Riccardo Milani. Certo, a noi piacerebbe continuare questa che potremmo forse definire una saga. È chiaro però che i figli sono cresciuti e quindi probabilmente potrebbe essere più interessante per gli spettatori e per le giovani generazioni, ascoltare, vedere e raccontare lo sviluppo delle nuove generazioni, dei ragazzi che sono cresciuti. Siamo partiti con il primo “Come un gatto in tangenziale” che avevano 12 anni, adesso ne hanno 20, sono maggiorenni. Può diventare molto interessante, perché la nostra storia ormai è quella di un incontro, di un innamoramento e si è abbastanza consolidato nel secondo “Gatto”. Qui potrebbe continuare raccontando quella che può essere la storia di una nuova generazione, lo sviluppo di un incontro tra due giovani.
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