Pio XII, un convegno a partire dagli archivi per riscoprire diplomazia e politica di Pacelli
Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano
“Pio XII non fu né il Papa di Hitler, né l’antisemita inerte e indifferente alla sorte degli ebrei. Questo è sicuro e indiscutibile”. Il professor Matteo Luigi Napolitano, docente di Storia delle relazioni internazionali presso l’Università degli Studi del Molise e delegato internazionale del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, parla con la certezza che solo le “carte” possono restituire per ricostruire la storia. In questo caso si parla dei documenti provenienti dagli archivi sugli anni di pontificato di Pio XII che, per volontà di Papa Francesco, sono state aperti al pubblico dal 2 marzo 2020.
Il convegno
Dati e risultati emersi dallo studio di quei faldoni saranno al centro di un convegno, in programma domani 5 giugno, alle 17.30, nel convento di Santa Maria sopra Minerva a Roma dal titolo “Pio XII: Chiesa, diplomazia e politica”. Organizzato dal Comitato Papa Pacelli – Associazione Pio XII, sarà presieduto dal cardinale Dominique Mamberti, prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, e vedrà la presenza della ricercatrice Alexandra Von Teuffenbach, oltre che dello stesso Napolitano che a Vatican News – Radio Vaticana anticipa le novità che saranno presentate circa la figura e l’operato di Papa Pacelli, specialmente durante la Seconda Guerra mondiale.
Professor Napolitano, cosa c’è da sapere sulla figura di Pio XII?
La figura di Pio XII va sicuramente analizzata grazie ai nuovi documenti. Si è sempre parlato della mancanza dell’apertura dei documenti vaticani, di una lacuna archivistica. Adesso i documenti ci sono, sono disponibili da tre anni e quindi ormai si può parlare tranquillamente di tutti gli aspetti del pontificato di Pio XII: sia quelli diplomatici, sia quelli relativi alla politica italiana o alla Guerra fredda che è un altro territorio inesplorato. Studiando anche le carte interne a quello che è stato definito il suo vero bureau, il nucleo di collaboratori che lo hanno accompagnato in questa difficile missione.
E da queste carte, per volontà di Papa Francesco rese disponibili agli studiosi o chiunque vi volesse accedere, quali sono le novità più importanti che emergono sull’operato di Pacelli? In particolare durante la Seconda Guerra mondiale che sappiamo essere un momento controverso del pontificato…
C’è molto di nuovo ma anche di “antico”. Nel senso che gli archivi hanno confermato gli orientamenti già offerti dalla documentazione pubblicata per ordine di Paolo VI, in seguito alle polemiche nei primi anni ‘60 sul cosiddetto silenzio di Pio XII davanti alla Shoah. Era una polemica metastorica nata da un dramma teatrale che inspiegabilmente è diventato un caposaldo della storiografia. Le carte appena aperte smantellano del tutto l’idea che il Vicario di Cristo in terra, in quel momento rappresentato da Pio XII, fosse un passivo antisemita silenzioso di fronte alla Shoah e così via. Quella è ormai mitologia, diciamo che siamo usciti dal “metaverso” - se vogliamo utilizzare un termine un po’ moderno - e siamo entrati in un’analisi più complessa, proprio perché il numero di carte e la consistenza delle stesse è tale che richiederà uno studio di molti anni e probabilmente da parte di molte generazioni di storici.
Tutto questo lavoro di ricerca in che modo verrà presentato al convegno?
Comincerei con una considerazione anche questa molto nuova, ma al contempo molto antica: il Vaticano fu considerato al processo di Norimberga una sorta di giudice aggiunto alla pubblica accusa contro i nazisti. La Santa Sede mise infatti a disposizione la documentazione dei suoi uffici per il processo; quindi la prima apertura di carte vaticane non risale a Paolo VI ma addirittura alla celebrazione del processo di Norimberga, perché i pubblici ministeri, rappresentanti dei cinque Paesi vincitori, furono messi al corrente delle valutazioni che il Papa faceva del regime nazista e soprattutto del tipo di rapporto esistente tra nazismo e Santa Sede. Un rapporto difficile, un regime di belligeranza: la Germania considerava di fatto la Santa Sede come uno Stato in guerra. Questo viene dimostrato dalla rottura dei sigilli della corrispondenza diplomatica da parte dei nazisti.
Altre cose nuove e antiche sono le reazioni internazionali alla enciclica del Papa Summi pontificatus del 20 ottobre 1939 e anche la questione - trattata in maniera piuttosto approssimativa - del Concordato del 1933 firmato dalla Santa Sede con il governo hitleriano, considerato da sempre elemento di prova a carico di Pacelli di un riconoscimento del regime nazista. Non lo è affatto per una semplice ragione: non solo cominciò prima dell’avvento di Hitler, ma soprattutto perché il Concordato del ‘33 dura ancora adesso. Sono spariti tanti trattati fatti da Hitler, il Concordato è rimasto e definisce ancora adesso le relazioni tra l’attuale Germania e la Santa Sede. Anzi, dirò di più, le nuove carte consentono di vedere che Hitler quel Concordato lo voleva cancellare. Con questo progetto inizia il suo rapporto con Pio XII. Poi c’è ancora un altro elemento importante…
Quale?
La questione del 16 ottobre 1943 sulla razzia degli ebrei romani. Anche qui si capisce immediatamente dai documenti che la Santa Sede non aveva problemi a protestare e che fu invece l’ambasciatore tedesco, arrivato a luglio e dopo pochissimo tempo già impelagato in una situazione complessa, a chiedere al Segretario di Stato di non riferire a Hitler della loro udienza del 16 ottobre. Ci sono parole messe a verbale dal Segretario di Stato che chiede che la razzia abbia fine, ma l’ambasciatore non vuole creare problemi e dare l’idea a Berlino che ci sia una situazione idilliaca con il Vaticano. Inoltre, al netto di quella tragica deportazione di oltre mille ebrei romani verso i campi di sterminio, c’è un quantitativo di ebrei che invece sparisce e trova rifugio in vari istituti religiosi cattolici di Roma. Più o meno siamo sull’ordine dei 4000-4500 ebrei che scompaiono, non danno traccia di sé, e vengono ospitati in istituzioni religiose. Un elemento confermato anche dagli archivi dello Yad Vashem.
Alla luce di quanto detto finora, emerge chiaramente l’operato della diplomazia vaticana in un tempo di guerra. Una situazione che si ripropone al giorno d’oggi dove la rete diplomatica vaticana si trova a dover affrontare la guerra in Ucraina. Dal passato, dal lavoro svolto in quegli anni bui, cosa possiamo imparare oggi?
La Santa Sede ha una grandissima tradizione umanitaria e diplomatica in queste situazioni di conflitto. Quando non riesce a prevenire i conflitti per ragioni evidenti, perché appunto il Papa non ha divisioni ed è inserito in un sistema che non è proprio quello delle alleanze, ecco, quando ciò non accade la Santa Sede è in grado di approntare le misure per una pace. Un grande precedente, tra l’altro ricordato anche dal cardinale Pietro Parolin di recente, è quello della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa ad Helsinki, uno strumento che ha visto la Santa Sede un ruolo di primissimo piano grazie anche alla delegazione guidata dal cardinale Agostino Casaroli. Allora e anche oggi la Santa Sede ha sempre mostrato una certa disponibilità ad agire e farsi promotrice di una pace giusta.
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