Migranti, dieci anni fa il naufragio a Lampedusa. Padre Baggio: priorità salvare vite umane
Tiziana Campisi – Città del Vaticano
Erano partiti dal porto di Misurata a bordo di un peschereccio. Sognavano l’Europa. Avevano lasciato le acque libiche dopo lunghi cammini, fra difficoltà e tappe a caro prezzo, dall’Eritrea e dall’Etiopia. Quella traversata, pagata 1600 dollari, doveva essere l’ultimo tratto verso un futuro migliore. Oltre 500 i migranti che il 3 ottobre del 2013, soltano 3 mesi dopo il viaggio del Papa a Lampedusa, si trovarono di fronte alle coste dell'isola siciliana, provati, sfiniti, ma quasi certi, ormai, di poter cominciare una nuova vita. Fu poco lontano dall’Isola dei Conigli che i motori dell’imbarcazione si bloccarono, per attirare l’attenzione dei soccorsi fu deciso di accendere un fuoco, incendiando una coperta. Le fiamme, però, si propagarono rapidamente, per sfuggire al fuoco i passeggeri si spostarono tutti repentinamente su uno stesso lato del barcone, che si capovolse e affondò. A morire furono in 368, 155 i superstiti salvati.
Accogliere i migranti come buoni samaritani
A dieci anni da quel naufragio, non molto è cambiato nel Mediterraneo e centinaia di migranti continuano a morire nel tentativo di raggiungere il continente europeo, alla ricerca di nuove opportunità di vita. Nell’odierna Giornata della Memoria e dell’Accoglienza, che ricorda i morti del 3 ottobre 2013 e tutte le vittime dell’immigrazione, padre Fabio Baggio, sottosegretario del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, ricorda a Vatican News-Radio Vaticana gli appelli del Papa ad accogliere, proteggere, promuovere e integrare e afferma che se da una parte servono politiche di cooperazione internazionale, solidarietà e giustizia globale, dall’altra occorre coltivare la cultura dell’incontro.
Quale riflessione si apre a dieci anni da quel naufragio in cui persero la vita 368 migranti, guardando anche alla realtà attuale?
Cominciamo a celebrare tanti anniversari, sono trascorsi dieci anni anche dalla visita del Papa a Lampedusa (8 luglio 2013). E sono dieci gli anni del pontificato di Papa Francesco, che non ha mai mancato di sottolineare la tragica situazione che si sta perpetrando non solamente sulla rotta migratoria del Mediterraneo, sicuramente molto conosciuta anche attraverso i mezzi di comunicazione, ma certamente non meno rischiosa o non meno mortale, ad esempio, della rotta del deserto dell'Africa subsahariana. Oppure di altre rotte nel mondo, come quella del centro America e quella del Nord America, mortali per tante altre persone. Parliamo di donne, di bambini, di uomini, che stanno cercando un futuro migliore per sé stessi e per la propria famiglia. Quello che sorprende, a distanza di tanti anni, è come quella che il Santo Padre aveva definito la “globalizzazione dell'indifferenza” stia prendendo sempre più piede e tanti cuori - ricordo una delle frasi del Papa che parlava di “sclerocardia” -, come diventino rigidi di fronte al dramma di tante persone. Di fronte al salvare la vita, di fronte al salvare la dignità delle persone, non ci possono essere altri tipi di ragionamento: prima si salva la vita, quindi cominciamo a costruire, eventualmente, altri tipi di percorsi che possano aiutare tutti quanti in un cammino insieme, per una vita migliore per tutti.
Non è tollerabile che il Mediterraneo diventi una tomba e nemmeno un luogo di conflitto, ha detto mercoledì scorso, all'udienza generale, il Papa parlando della sua partecipazione a Marsiglia ai Rencontres Méditerranéennes. L’auspicio di Francesco è che il Mediterraneo recuperi la sua vocazione di essere laboratorio di civiltà e di pace, la Chiesa quale contributo può dare?
Dobbiamo sottolineare - e penso che questo sia un dovere - l’importanza di questo incontro di Marsiglia al quale il Papa ha voluto partecipare di persona, sottolineando alcuni aspetti importanti del bacino Mediterraneo che ha visto il sorgere di grandi civiltà. Proprio facendo appello alla culla di civiltà che è stato, Francesco ha richiamato tutta una serie di valori che sono i pilastri della nostra civiltà. Le morti, le tragedie, quello che sta succedendo - e il Papa ha parlato molte volte di schiavi, lager, torture - non dovrebbero esistere in un bacino che è stato culla - e lo è ancora - di civiltà. Ecco allora che la Chiesa, unita, e i vescovi, insieme con i loro direttori di pastorale, con gli agenti pastorali, con le organizzazioni cattoliche impegnate a Marsiglia - ma lo hanno fatto prima a Firenze, a Bari - si ritrovano a riflettere su un'azione comune, che deve essere una ricostruzione di quella umanità che è stata abbellita, arricchita, attraverso le civiltà che sono sorte nel bacino Mediterraneo.
La Dottrina Sociale della Chiesa quali suggerimenti può offrire perché si risolva il problema dell'immigrazione irregolare?
Negli anni scorsi, noi del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, abbiamo pubblicato una serie di orientamenti pastorali. Tali orientamenti pastorali hanno tratto i loro concetti fondamentali da una parte dal magistero, cioè quello che è stato detto dai Pontefici, dal magistero universale, ma anche dal magistero locale, ossia quello che ci hanno detto i vescovi e anche quello che è frutto di una consultazione capillare di tutte le Chiese locali che si vedono coinvolte in questa sfida moderna che è la sfida dell'immigrazione. Queste indicazioni si riassumono nei 4 verbi che ci ha consegnato il Papa: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Quattro verbi che ormai sono entrati anche nel linguaggio comune, usati pure in ambiti non esclusivamente cattolici, perché indicano un percorso, che non si può fermare solamente al primo verbo o non può includere solamente l’ultimo, perché è composto di questi quattro verbi, che, come ha detto anche il Santo Padre, non riguardano esclusivamente la pastorale migratoria, ma tutta la pastorale, tutta l'inclusione dei fragili, dei vulnerabili. Usando un'altra parola cara al Pontefice, riguarda tutti gli abitanti delle periferie esistenziali. Attraverso questo stimolo che ci è offerto oggi da fratelli e sorelle in difficoltà, viene richiamato quello spirito fondamentale del versetto 25 del Vangelo di Matteo, in cui Gesù Cristo è presente in ognuno dei fratelli necessitati: ero affamato, ero assetato, ero nudo, ero ammalato, ero prigioniero, ero straniero, e tu che cosa hai fatto?
Il Papa, sempre mercoledì scorso, ha detto che bisogna organizzarsi e pensare ad azioni a lungo, medio, e breve termine, perché le persone, in piena dignità, possano scegliere di emigrare o di non emigrare; che cosa si può fare, concretamente, già da oggi?
Il messaggio del Santo Padre di quest’anno, per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, che abbiamo celebrato il 24 settembre scorso ha voluto puntare su questo aspetto: liberi di scegliere se migrare o restare. E ha elencato tutta una serie di azioni che devono essere fatte. Alcune azioni riguardano attori politici e sociali, la comunità internazionale per politiche di appoggio, di cooperazione internazionale, di solidarietà, di giustizia globale, che possono essere messe in atto in modo da produrre quelle condizioni per cui possa esserci sviluppo in tanti Paesi. Di fatto, esiste un’agenda che da molti anni è stata messa in campo dalla comunità internazionale, proprio per raggiungere determinati obiettivi di sviluppo. Ma esistono anche azioni che fanno parte della nostra quotidianità: la prima è quella di non dimenticarci mai di pregare per coloro che soffrono, per coloro che vivono questi drammi, per coloro che stanno cercando un futuro, per coloro che sono dovuti fuggire dalla loro terra; la seconda cosa è costruire nelle nostre comunità un clima di accoglienza, vuol dire che chiunque arriva, deve trovare e sentirsi, dove si trova, in una comunità accogliente, che si apre, una Chiesa che apre le porte, che ama profondamente perché riconosce un fratello e una sorella in difficoltà; la terza cosa che possiamo fare nel nostro piccolo è chiedere quali piccole azioni possono essere fatte - parlo di azioni di accoglienza, di protezione, di promozione e di integrazione - nel nostro quartiere, della nostra città, in modo da aprire le porte e lasciarci arricchire da una cultura che è diversa, che sicuramente ha bisogno di mediazioni, ma che alla fine porterà elementi nuovi, per cui io alla fine sarò di più di quello che ero prima.
C’è anche un problema più ampio da affrontare ed è quello culturale. Lo ha ribadito più volte anche Francesco che le nostre sono società in cui dilaga l'individualismo, dove c'è poca accoglienza e apertura verso l'altro; come promuovere, allora, una cultura della solidarietà?
Papa Francesco ha dedicato un'intera enciclica a questo aspetto particolare, la Fratelli tutti, e penso che abbia rilevato alcune preoccupazioni e alcuni rischi in questo momento corre l'umanità. Tra questi l'esagerato egoismo, l’individualismo esagerato per cui esisto io e solamente io e tutto viene giudicato a partire dal mio punto di vista e del mio interesse. Ma il Papa ha parlato anche della “cultura dello scarto”, che dipende anche dall’egoismo, nel senso che se vale solamente ciò che a me interessa, tutto il resto lo posso scattare. Il Papa ci ha messi anche in guardia dalla cultura dello scarto che ci porterà a considerare che solo se qualcosa vale ai nostri occhi allora produce un interesse. Questo, ovviamente, porterà a scartare tutte quelle persone fragili e vulnerabili che possono essere interpretate come persone di peso. Non lo sono assolutamente, però possono essere interpretate così in questa cultura dello scarto. Il Papa propone, invece, la cultura dell'incontro e la cultura della cura. Per generare solidarietà occorre portare avanti una cultura dell'incontro, che non è la cultura dei muri, ma piuttosto delle porte aperte. Cultura dell'incontro è andare incontro all’altro come ha fatto il buon samaritano, e quella del buon samaritano è la parabola centrale della Fratelli tutti. Non fermarsi a chiedere perché, come, ma chinarsi sulla persona ferita, in mezzo alla strada, senza sapere chi è e prendersene cura fino alla fine. La cura viene poi determinata da tutta una serie di atteggiamenti che sono fondamentali: il primo è riconoscere il fratello e la sorella nell’altro che io non conosco, che è straniero, che è lontano da me; secondo riconoscere la presenza di Cristo in queste persone, Cristo ferito che io accolgo perché è un'opportunità per me, trovare il Cristo ferito nel mio cammino, prendersi cura, lenire le ferite, ascoltare la persona, cercare di alleviare le sue sofferenze; terzo è portare avanti questo tipo di cura anche affidandosi - come fa il buon samaritano con il locandiere - anche a persone esperte, professionisti, che ci possano aiutare in questo percorso.
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