No alla guerra e vicinanza a tutte le vittime
Andrea Tornielli
Da oltre un secolo la Santa Sede, con un crescendo di pronunciamenti determinato dall’acuirsi delle minacce belliche e dall’utilizzo di armi sempre più sofisticate e distruttive, dichiara con forza il suo “no” alla guerra. Dall’appello profetico di Benedetto XV contro “l’inutile strage” della Grande Guerra fino alle parole ribadite in ogni occasione da Papa Francesco sulla guerra come una sconfitta per l’umanità, il magistero dei Vescovi di Roma ha chiarito e approfondito che non esistono “guerre giuste” e che anche il diritto all’autodifesa deve essere proporzionato, come insegna il Catechismo della Chiesa cattolica.
Fin dall’inizio della guerra di aggressione perpetrata dalla Russia contro l’Ucraina e poi nuovamente nelle ultime settimane dopo l’attacco disumano di Hamas con le brutalità commesse contro i civili israeliani e poi la controffensiva dell'esercito di Israele che ha raso al suolo tante abitazioni di Gaza uccidendo migliaia di palestinesi innocenti, si sono levate critiche nei confronti dell’atteggiamento del Papa e della Santa Sede. Un atteggiamento che da molto tempo ormai viene scambiato da alcuni come “neutrale”, quasi che in Vaticano, per un eccesso di diplomazia, non si fosse in grado di valutare torti e ragioni delle parti in conflitto.
Vale dunque la pena di ricordare – nuovamente - che la Santa Sede di fronte alle guerre non è mai stata “neutrale” né “equidistante”. Ha sempre cercato, invece, di essere imparziale, cioè di non risultare o apparire coinvolta nel conflitto e al tempo stesso “equivicina”, cioè vicina non a chi provoca le guerre ma a chi soffre, a chi paga le conseguenze dei conflitti, ai civili uccisi, ai feriti, alle madri e ai padri dei soldati caduti, alle vittime innocenti del terrorismo e delle rappresaglie.
I media vaticani non possono che seguire questa stessa linea editoriale rifiutando quella polarizzazione che appare come la cifra caratteristica non soltanto delle guerre in atto ma anche più in generale del mondo nel quale oggi ci troviamo a vivere. Mantenere canali di dialogo aperti con tutti, non chiudere mai le porte con la speranza di arrivare a un cessate il fuoco e poi a un negoziato per una pace giusta, preoccuparsi per le vittime innocenti da qualsiasi parte stiano, riflettere sulle cause più o meno remote di un conflitto, evitare di usare linguaggi di odio e di demonizzazione, non significa affatto misconoscere che c’è un aggressore e un aggredito né tantomeno ignorare la legittimità dell’autodifesa. Significa invece avere a cuore la sorte degli innocenti, non spegnere mai il lumicino fumigante della speranza della pace, cogliere ogni piccolo segnale di apertura da qualunque parte provenga, credere nella diplomazia, e soprattutto preoccuparsi della sorte delle vittime, dei mutilati, degli sfollati. Significa anche uscire dalla logica della polarizzazione e del pensiero unico.
È possibile condannare il disumano attacco terroristico di Hamas contro i civili israeliani e al contempo sollevare dubbi e domande sulla risposta armata dell’esercito di Tel Aviv per l’alto numero di vittime civili provocate e per la tragedia umanitaria a Gaza?
Ci sono conflitti nei quali il tifo è quanto mai improprio, e quello in corso in Medio Oriente è certamente tra questi, generato da una situazione molto complessa dove le responsabilità degli uni si sommano a quelle degli altri e non le giustificano.
Nel cercare di raccontare le guerre in corso e di offrire spunti di riflessione, il nostro faro è rappresentato dalle parole profetiche dell’attuale Successore di Pietro, che continua a mettere in guardia l’umanità intera dal rischio della guerra globale e dell’autodistruzione. Tentiamo di fare giornalismo separando i fatti dalle opinioni, e le opinioni nostre da quelle degli altri. Riportare queste ultime, dando voce a personalità che ci sembrano interessanti, non significa condividerle. Significa piuttosto cercare di comprendere valorizzando le voci più critiche e meno ideologiche.
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