Suor Brambilla: l'esperienza missionaria un aiuto nel servizio alla vita consacrata
di Nicola Gori
Infermiera professionale, con licenza in psicologia ed esperienza nella pastorale giovanile in Mozambico. Eletta nel 2011 superiora generale dell’istituto delle Missionarie della Consolata e rieletta nel 2017, ha mantenuto l’incarico fino a maggio 2023. È suor Simona Brambilla, la prima donna a ricoprire l’incarico - dal 7 ottobre scorso - di segretario del Dicastero per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica. La religiosa si racconta in una intervista a L’Osservatore Romano.
Con quale spirito ha intrapreso questa nuova tappa della sua missione di consacrata?
Ho accolto questa richiesta di Papa Francesco come una chiamata, che mi interpella e coinvolge profondamente come persona, donna, cristiana, consacrata, missionaria. Una chiamata innanzitutto ad ascoltare, comprendere, sentire, imparare. E questo mette in moto il tutto di me: i sensi esteriori e quelli interiori, il corpo, la memoria, l’intelletto, il cuore, la sensibilità, l’anima. In questo inizio di servizio in Dicastero, sperimento una sorta di orientamento graduale del mio essere a questa nuova missione, davvero diversa rispetto alle esperienze vissute in precedenza. Ho trovato un ambiente accogliente, familiare, benevolo. E questo è un grande aiuto per me. So di avere molto da imparare da tutti e tutte e sento il bisogno di mettermi alla scuola di chi ha molta più esperienza e competenza di me in questo tipo di servizio alla vita consacrata. Confido nell’aiuto e nella preghiera di tutti e tutte. Mi affido alla Vergine Maria, la Madre Consolata, la Donna per eccellenza, colei che con somma tenerezza e coraggio, umiltà e passione, mitezza e tenacia sa radunare, unire, consolare i suoi figli e figlie, custodendo e attizzando il fuoco in un cenacolo in cui la vita cresce e ove tutti e tutte si sentono “a casa”.
Quanto della sua esperienza missionaria incide in questo servizio al Dicastero?
Non posso separare la mia vita dalla missione. Quindi, in questo nuovo servizio, portando ciò che sono, porto anche tutta l’esperienza missionaria che il Signore mi ha donato di vivere. La missione mi ha aperto il cuore allo stupore del riconoscere la presenza di Dio, i semi e i frutti del suo Spirito nei popoli, nelle diverse culture, nelle varie tradizioni religiose, nell’intimo delle persone con le loro storie diverse, uniche, sacre. Mi ha aperto alla gioia dello scambio fruttuoso tra diversi, all’esperienza dell’interculturalità all’interno della comunità e col popolo a cui sono stata inviata, alla ricerca insieme, al dialogo interreligioso, alla bellezza del costruire insieme ponti sui quali possano transitare sapienze ed esperienze. Ovviamente tutto ciò comporta delle fatiche, ma la vita e la bellezza che sprigionano queste interazioni superano immensamente il peso delle fatiche e delle difficoltà e conferiscono ad esse il giusto significato. La missione mi ha pure portato a gustare in modo esistenziale il senso più vero dell’essere Chiesa: la Chiesa esiste per evangelizzare, la Chiesa è missione, è comunicazione dell’Amore di Dio per tutti e tutte, è uscire verso le periferie, e le periferie più periferiche sono quelle dove il Vangelo non è conosciuto e dove i cuori, spesso a causa di ferite e dolori profondi e inascoltati, non sono ancora aperti ad accogliere Gesù. La missione mi ha stimolato ad un cammino di semplicità ed essenzialità, che sento il bisogno di rinnovare ogni giorno: davanti a fratelli e sorelle impoveriti e privati di ciò che è necessario ad una vita umana dignitosa, mi sento provocata a svegliarmi dai miei sonni, a convertirmi dalle mie lamentele, a non permettermi di adagiarmi in qualche tipo di comodità. Sento che fino a quando un fratello e una sorella saranno ancora nella sofferenza, nell’abbandono, sotto il peso della guerra, della violenza, dell’abuso, dell’indifferenza, dello sfruttamento, non ho alcun diritto di vivere una vita “tranquilla”. Ancora, l’esperienza missionaria ha acceso in me una nuova sensibilità alla piccolezza, alla fragilità, alla vulnerabilità come luoghi in cui Dio ama abitare e dai quali Egli ama evangelizzare, lontano dai parametri della grandiosità, della visibilità, del potere, del dominio. Mi pare che tutto ciò possa avere dei risvolti in questo nuovo servizio alla vita consacrata, che, in qualsiasi forma essa si esprima, porta sempre in sé la dimensione missionaria.
Come applicare la sinodalità agli istituti di vita consacrata e alle società di vita apostolica?
Mi piace citare qui la Relazione di sintesi della prima sessione della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi sulla sinodalità: «La vita consacrata più di una volta è stata la prima a intuire i cambiamenti della storia e cogliere gli appelli dello Spirito: anche oggi la Chiesa ha bisogno della sua profezia. La comunità cristiana guarda inoltre con attenzione e gratitudine alle sperimentate pratiche di vita sinodale e di discernimento in comune che le comunità di vita consacrata hanno maturato lungo i secoli. Anche da esse sappiamo di poter apprendere la sapienza del camminare insieme. Molte congregazioni e istituti praticano la conversazione nello Spirito o forme analoghe di discernimento nello svolgimento dei Capitoli provinciali e generali, per rinnovare le strutture, ripensare gli stili di vita, attivare nuove forme di servizio e di vicinanza ai più poveri. In altri casi si riscontra però il perdurare di uno stile autoritario, che non fa spazio al dialogo fraterno». In effetti, in molte realtà di vita consacrata la sinodalità viene applicata, elaborata, vissuta, con effetti evangelici, benefici, vitalizzanti, sui consacrati e le consacrate e sulla missione loro affidata. In altri contesti il cammino sinodale è ostacolato da una concezione e una prassi riduttive e fuorvianti della vita consacrata e del servizio di autorità. La sintesi dei contributi sulla sinodalità compilata dall’Unione internazionale delle superiore generali e dall’Unione dei superiori generali sulla base degli apporti delle 224 congregazioni — 169 femminili e 55 maschili — che hanno partecipato alla consultazione durante il percorso sinodale, mi pare offra un interessante spaccato sulle gioie e le difficoltà della sinodalità, almeno negli istituti di vita consacrata.
Che ruolo riveste la formazione all’interno degli istituti?
La formazione, in ogni sua tappa, dimensione e modalità, riveste un ruolo cruciale nella crescita integrale delle persone consacrate e, di conseguenza, nello sviluppo di relazioni interpersonali sane ed evangeliche, di comunità e processi sinodali, di cammini di vita consacrata autenticamente animati dal fuoco dell’amore per Cristo e per i fratelli e le sorelle. Vorrei evidenziare la seria attenzione che meritano il discernimento e l’accompagnamento vocazionale prima dell’ingresso in un istituto o società, in modo da verificare nei candidati i requisiti basilari sul piano umano, spirituale, motivazionale. Tale verifica esige tempo prolungato, attenzione ai processi personali e interpersonali, conoscenza dell’ambiente e della cultura del candidato o candidata. Il discernimento continua, una volta che la persona è entrata in vocazione, attraverso l’accompagnamento personale sistematico e attento, affiancato dall’accompagnamento di gruppo. La preparazione accurata in ambito spirituale, teologico e professionale ha la sua indiscutibile importanza nel formare una corretta capacità di comprensione, elaborazione, valutazione e giudizio critico. Spesso però le problematiche, le sofferenze e le difficoltà nel vissuto della vita consacrata, nelle relazioni interpersonali, nel rapporto tra autorità e obbedienza e nell’intendere e vivere la sinodalità derivano da qualche tipo di ferita, di vuoto o di debolezza a livelli più profondi, forse mai visitati e tanto meno accolti e integrati. Una formazione che raggiunga e apra alla trasformazione evangelica le aree più profonde della persona è allora indispensabile per una vita consacrata sana, gioiosa, sinodale, evangelica. Occorre investire decisamente in un serio discernimento e in una accurata formazione integrale, iniziale e permanente, senza permettere che il fascino dei grandi numeri, dell’estensione delle nostre presenze, della grandezza delle nostre opere, della visibilità delle nostre strutture ci rubi la libertà di essere ciò che siamo: semplici segni del Regno, un Regno che Gesù ama esprimere con le immagini umili del minuscolo granello di senapa, del poco lievito nella massa, del tesoro nascosto in un campo.
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