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Incontro sulla spiritualità dell'elaborazione del lutto all'ospedale Bambin Gesù (da sinistra): don Luigi Zucaro, Tiziano Onesti, rabbino Riccardo Di Segni Incontro sulla spiritualità dell'elaborazione del lutto all'ospedale Bambin Gesù (da sinistra): don Luigi Zucaro, Tiziano Onesti, rabbino Riccardo Di Segni 

I riti religiosi e l'elaborazione del lutto

Al Bambin Gesù l'incontro "Le mie lacrime nell'otre tuo raccogli": un approfondimento, con il Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Di Segni, sulla risposta della tradizione ebraica e di quella cristiana al tema del dolore dinanzi alla morte. Don Zucaro: ai funerali bisogna avere il coraggio di parlare di vita eterna, di ritrovare il senso della consolazione e della condivisione della sofferenza a livello comunitario

Vatican News

"Le mie lacrime nell'otre tuo raccogli": è il versetto del Salmo 55 a dare il titolo all'incontro formativo che si è tenuto nel pomeriggio di oggi, 25 giugno, all'ospedale Bambin Gesù, a Roma. Il responsabile della funzione bioetica della struttura pediatrica vaticana, don Luigi Zucaro, e l'ospite invitato, il Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Di Segni, hanno illustrato alcuni tratti salienti della spiritualità e della cultura legata all'elaborazione del lutto nella tradizione cristiana ed ebraica. 

Individualismo e materialismo svaporano la fede nella resurrezione

Ad aprire l'incontro è stato il presidente dell'ospedale Tiziano Onesti, che ha sottolineato il valore della condivisione del dolore e dell’accompagnamento da offrire a chi ha perso un familiare, un amico, una persona amata. "Si tratta di un tema scomodo”, ha precisato, soprattutto considerando i casi in cui si ha a che fare con l'ineluttabilità della morte infatile, nonostante gli sforzi per salvare da patologie o traumi. Sono circa un centinaio i piccoli che ogni anno vanno in cielo in questo ospedale. Di fronte a un dato come questo, o comunque di fronte a una perdita grave, la religione è ancora in grado di rappresentare una risposta? È stato l'interrogativo posto da don Luigi; anch'egli è stato medico, come peraltro lo stesso rabbino. "Se Dio esiste c’è anche lì, dove muore un bambino, dove vediamo una sofferenza ingiusta", ha insistito Zucaro, il quale ha offerto una disamina di come storicamente la cura dei defunti fosse un aspetto fondamentale per le civiltà. Si è soffermato in particolare su come nel tempo si siano fortemente indebolite o perlomeno si siano sfumate le forme rituali che segnano la fine della vita terrena, soprattutto a causa di un sempre più diffuso individualismo e materialismo. Ha citato il Dalai Lama quando osserva che in Occidente le persone vivono come non dovessero mai morire e muoiono come se non fossero mai vissute. Una certa spiritualità fai da te fa venir meno la fede, ha spiegato il cappellano, facendola retrocedere quasi esclusivamente verso ritualismi che riguardano l'interiorità ma poco la vita comunitaria. Secondo Zucaro, si è persa la dimensione verticale a favore di un impegno di tipo sociale, sì lodevole, ma che non costituisce il nucleo della fede cristiana.

Il coraggio di parlare di vita eterna

"I riti funebri sono un inutile orpello? No, lo dice anche la ricerca. Perché aiutano a fare i conti con la morte e il dolore", così ancora don Luigi il quale ha ricordato anche come nella Gaudium et Spes (cap 18) viene rimarcato che "la fede dà una risposta alle sue ansietà circa la sorte futura". Don Zucaro ha parlato della necessità che si crei uno spazio dove il dolore possa essere manifestato e ha lamentato la svalutazione cui oggi si assiste dello stesso termine ‘consolazione’, che invece ha un valore importantissimo, tanto da essere un attributo dello Spirito Santo. Va ripreso molto sul serio questo aspetto del non rimanere soli nella sofferenza, così come "una parola sapiente, magari presa dalla Sacra Scrittura, può sostenere moltissimo nella prova". Spiegando il significato di certi simboli che appartengono alla tradizione cristiana, come per esempio il colore liturgico viola che rimanda all'aurora, al “giorno che è vicino” (Rom 13,11), don Luigi ha constatato che al funerale cristiano alle volte finisce per prevalere una consuetudine che vuole portare a una de-sensibilizzazione verso la morte, "non si parla più di resurrezione, di una vita dopo la morte. Non abbiamo più il coraggio di parlare di questo, paradossalmente, nelle omelie". Di fronte, dunque, a una sorta di rimozione, da un lato, della morte - al contrario di quanto si faceva nel primo Rinascimento quando invece era molto frequente salutarsi con la formula del “memento mori” - e, dall'altro, della vita oltremondana, il sacerdote ha concluso rinviando ancora all'utilità di leggere i Salmi: “Insegnami a contare i miei giorni e acquisirò la sapienza del cuore”. 

Il valore dei riti e della comunità per elaborare il lutto

Anche il rabbino Di Segni ha evidenziato come nella nostra cultura ormai cerchiamo di fuggire la morte. Ha spiegato il modo in cui nella tradizione ebraica l’elaborazione del lutto è scandita nel tempo e nello spazio, per cui si passa gradualmente da un vivere il distacco in una dimensione privata e ristretta alla condivisione di questo trauma in una collettiva. Di Segni ha ricordato, per esempio, che il cadavere non viene esposto ma è sempre coperto, quasi a proteggere una creatura indifesa, e che il cadavere va interrato, non esiste la cremazione. Nella settimana dopo l'inumazione, gli osservanti si attengono alle regole ben codificate in base alle quali non si può sedere a tavola, è proibito studiare cose piacevoli, non si esce da casa se non per preghiere collettive, si ricevono le visite di amici e parenti, non ci si profuma, non si lavora, i vicini di casa offrono un pasto preparato con cibi simbolici, per esempio l’uovo. La mattina del settimo giorno si compie un rito alla tomba e per il mese a seguire gli uomini non si tagliano la barba. Si tratta di una serie di comportamenti che danno la possibilità di uscire gradualmente dal tunnel della disperazione, posto che non tutti riescono a superare il lutto, di fatto. Tre volte al giorno gli ebrei pregano 'sia lodato il tuo nome che fa rivivere i morti', sebbene la tradizione culturale che è loro propria sia concentrata sui doveri dell’oggi. "Per un anno l’invito è a recitare in sinagoga una preghiera in aramaico che dice le stesse cose del Padre Nostro: una preghiera - ha concluso il rabbino di Roma - che non parla dei morti ma è una esaltazione del nome divino, che in sostanza esprime l'accettazione di una realtà più grande che dobbiamo accettare". 

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25 giugno 2024, 16:58