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Il cardinale Claudio Gugerotti Il cardinale Claudio Gugerotti

Gugerotti: non ci sarebbe nessuna guerra se le grandi potenze volessero un accordo

Il prefetto del Dicastero per le Chiese Orientali commenta il discorso del Papa alla Roaco. Dall'Ucraina alla Terra Santa, dal Karabakh all'Etiopia, il cardinale ricorda: "Quando si chiede di avere la Chiesa dalla propria parte, vuol dire che ci si sente fragili. I miracoli non sono che una Chiesa vinca la guerra, ma che lavori per una riconciliazione". Appello poi all'Europa: credete in quello che avete insegnato, non smentite l'eredità culturale della Grecia

Antonella Palermo - Città del Vaticano

Il cardinale Claudio Gugerotti, prefetto del Dicastero per le Chiese orientali, approfondisce con i media vaticani i temi del discorso che Papa Francesco ha rivolto alla Riunione Opere Aiuto Chiese Orientali (Roaco) ieri, 27 giugno, in Vaticano, a conclusione della plenaria dell'organismo di cui il porporato è presidente. 

Cosa ha apprezzato di più del discorso che il Papa ha rivolto alla Roaco?

Tutto. Il discorso del Santo Padre ha toccato esattamente i punti nevralgici delle problematiche che abbiamo affrontato alla Roaco, in vista del sostegno alle Chiese orientali. Il problema fondamentale è la guerra. Il Papa ha detto parole fortissime: fermatevi, fermatevi! Parole che ripete costantemente. Io credo che il messaggio di tutto il pontificato sia essenzialmente una richiesta di pace. Poi c’è il tema della fuga dei cristiani a causa della guerra. L’altro punto ancora è la logica del potere collegata alla logica della guerra. E anche collegata a volte con il modo di gestire la Chiesa.

In riferimento al conflitto in Ucraina, Francesco ha precisato che la fede “non può essere ridotta a strumento di potere”…

Questo vale per molte altre realtà. L’importanza dell’annuncio del kerygma della fede non va mai subordinato ad alcuna situazione di carattere politico, né che riguardi la Chiesa propria né che riguardi la situazione generale o il conflitto con altre Chiese. Questo è evidente e lo capiscono tutti ma è difficile metterlo in pratica. Spesso è difficile per i cristiani in una situazione di guerra non far riferimento alle circostanze anche di carattere politico. E forse non è neppure giusto, ma lo specifico cristiano non è questo. La gente non si salva con un telegiornale al posto dell’omelia perché le tragedie le vedono già alla televisione. La gente ha bisogno di speranza e l’unica speranza è il fatto che Cristo è morto e risorto. Questo si fa fatica a capire quando si chiamano i sacerdoti a combattere al fronte lasciando vacanti le comunità parrocchiali. Chi è che può dare a questa gente capillarmente una speranza per sopravvivere se non la liturgia, i sacramenti, la preghiera, il sacerdote che consola, che aiuta: insomma l’amore di Dio? Come si fa a pensare che sia più utile combattere che non gestire il morale della gente? Ma per farlo bisogna credere in Dio. E quando la fede è una specie di vernice, allora succede che poi si fanno delle scelte che, convinti di farle per il bene del popolo, mettono in discussione la forza di sopravvivenza del popolo stesso. La strumentalizzazione diventa sempre una tentazione forte del potere di avere la Chiesa dalla propria parte e della Chiesa di trarre vantaggio. E quando si chiede di avere la Chiesa dalla propria parte vuol dire che si sente di essere fragili.


E la Chiesa perché in alcuni casi si lascia ‘condizionare’?

L’Oriente ha sempre visto una profonda identificazione della Chiesa con la vita nazionale. La maggior parte delle nostre Chiese sono fortemente identitarie. Questa combinazione è un problema di secoli nei tempi di guerra diventa molto più accesa, militante e militare, purtroppo. Ma non si deve dimenticare che queste sono anche  Chiese di martiri, che per non cedere al potere hanno vissuto nella propria carne la storia di Cristo, ucciso dalla politica della fede. Questo passa anche attraverso la riflessione sulla guerra. In Occidente ci siamo svegliati con il Novecento nel porre un problema sulla guerra, sulla sua drammaticità e liceità. Prima avevamo al massimo un riferimento alla ‘guerra giusta’. La guerra sembrava inevitabile come un’epidemia. “Dalla peste e dalla guerra liberaci, o Signore”, si cantava. Una riflessione esplicita sulla guerra è abbastanza recente in Occidente, ma quasi assente nell’Oriente. La guerra è diventata a volte un avvenimento in cui si scopre la fierezza, l’orgoglio della propria identità e la si contrappone a quella dell’altro e il rischio è che a volte la religione diventi uno strumento per attizzare l’odio, anziché per spegnerlo. È per questo che il Papa continua a insistere sul tentare forme di convivenza, di negoziato, di testimonianza comune di quelli che dovrebbero essere ‘nemici’ e che riescono a mettersi insieme e a pregare insieme. A Verona nell’arena c’è stato, durante la recente visita del Papa, un bellissimo episodio in cui un palestinese e un ebreo si abbracciavano anche se a entrambi qualcuno dell’etnia dell’altro aveva ucciso un parente, e che sono riusciti a superare questa cosa proprio in nome della loro solidarietà. Si sono abbracciati e Papa Francesco si è unito al loro abbraccio. Ecco, i miracoli non sono che una Chiesa vinca la guerra, i miracoli sono che la Chiesa lavori per una riconciliazione.

Quale bilancio di questa plenaria della Roaco?

La mia impressione è stata che queste organizzazioni – soprattutto europee e statunitensi – che aiutano l’Oriente hanno preparato vari progetti da sostenere e si nota come siano ancora progetti ‘di normalità’. A parte le prime necessità, quando è concesso di provvedervi, noi siamo impotenti ad aiutare le persone in guerra perché non ci si può andare e in alcuni casi non si possono neanche mandare i soldi. Quindi siamo costretti a parlare dei progetti di sempre. Però le riflessioni sono tutte sulla guerra e sulle conseguenze della guerra e su come dobbiamo prepararci ad affrontare una ricostruzione. È uno sforzo immane per il quale però non si può far nulla finché le guerre non finiscono. Quello che mi ha colpito molto è pensare che normalmente i nostri sono progetti di sviluppo, ma presto diventeranno progetti per ricostruire quello che l’uomo ha distrutto. Abbiamo speso per costruire, abbiamo speso per distruggere e adesso dobbiamo spendere di nuovo per ricostruire mentre la gente muore di fame e di disperazione. È un uso dissennato del danaro dovuto all’assecondare i nostri istinti più bassi. Altro che progresso: è una follia tale che salta all'occhio. Quindi il clima della Roaco è stato: guardiamo i progetti possibili. Certo, la Siria è in miseria, la situazione in Tigray è inimmaginabile, l’Ucraina è in ginocchio. Dovunque c’è la guerra si creano delle voragini economiche per la sopravvivenza di chi è vivo solo perché è sfuggito alla nostra furia di non saperci fermare in tempo. Ma come si fa ad ammantare un atto di barbarie per farlo diventare il trionfo dell’eroismo?

Riguardo alla regione del Karabakh, è avvenuta in plenaria una cosa inedita…

Siamo stati felicemente indotti a rivolgerci alla presenza di un vescovo ortodosso, della Chiesa armena apostolica, per affrontare il problema dei rifugiati dal Karabakh. Sono quasi tutti in Armenia, una piccola parte in Russia da parenti. Molti sono stati ricevuti dalle famiglie e quindi non ci sono campi di rifugiati. La Chiesa armena cattolica sul posto è molto piccola e fragile in questo momento. Ci siamo allora rivolti ai nostri fratelli Armeni apostolici; abbiamo sentito i loro progetti per sfamare e per cercare un lavoro perché non si possono tenere delle sacche di miseria in modo prolungato, senza cadere nell’abbrutimento. Il Caucaso è già pieno di sacche: gli emigrati dall’Abkhasia, gli emigrati dalla guerra civile in Georgia, gli emigrati dalla guerra in Ossezia del sud: un fazzoletto di terra è pieno di rifugiati; il Karabakh è l’ultimo episodio. E non vogliamo che si ripeta che questa gente prenda un albergo, lo occupi e per vent’anni non si muova di lì. Diventerebbe uno spazio di degrado pubblico, un ghetto. Ha dunque partecipato il capo della sezione affari sociali della Chiesa armena apostolica, il vescovo Gevorg Saroyan. Il Santo Padre ha avuto per lui parole molto tenere e lui si è sentito molto sostenuto, ha sentito che non era solo nel suo sforzo per aiutare i profughi.

Un segno concreto di ecumenismo…

Certamente, i segni concreti sono quasi l’unica forma di ecumenismo che ci è rimasta in questo momento, e certamente la più eloquente.


Cosa la indigna maggiormente sul conflitto mediorientale?

Mi indigna la natura tribale delle lotte interne e ancora di più che tutte queste guerre siano frutto di scelte esterne ai Paesi, di potenze che vogliono esercitare la propria influenza per spartirsi il mondo. Uno non è che fa la guerra in casa sua: va a farla nella casa degli altri. E sono quei deboli che non possono opporsi perché, a loro volta, hanno divisioni interne. Che poi, quando avranno dissanguate queste terre,  saranno i popoli che pretenderanno di venire a ricostruire. Ma intanto sono alla base dell’impossibilità di trovare un accordo. Non c’è un conflitto che sfugga alla logica che si fa la guerra in territorio di altri. Io ho parlato con un alto funzionario politico del Medio Oriente il quale mi ha detto: chi può venire a parlare con me dall’Europa o dagli Stati Uniti? Solo i servizi segreti che non temono di perdere voti perché sono sconosciuti. I politici non verranno mai perché dicono: se veniamo a incontrarvi non ci votano. Se le grandi potenze volessero mettersi d’accordo, domani non ci sarebbe nessuna guerra di quelle di cui parliamo e anche di quelle di cui non parliamo. Basta vedere il PIL dei Paesi africani e guardare le ricchezze naturali che hanno. Questi soldi dove vanno? Hanno un debito internazionale altissimo che non potranno pagare mai. È una illusione ricevere i soldi da loro e però continuiamo a chiederli e depauperiamo le risorse di questi popoli. Questo è il neocolonialismo.

Come la interpella la condizione in cui versa Gaza? È maturata nei lavori della Roaco qualche iniziativa?

Il problema è che c’è una assoluta mancanza di volontà di arrivare a un accordo. Ci sono gruppi estremisti da una parte e dall’altra. C’è qualcuno a cui fa comodo che la guerra continui. Come possiamo fare un calcolo di aiuti nella Striscia di Gaza se non sappiamo se ci sarà ancora?

Ci sarà ancora?

La Santa Sede ce la mette tutta e non potrà mai accettare che non ci sia una terra per i palestinesi. Mai. E infatti questa situazione si sta ripercuotendo anche sul West Bank, dove i cristiani sono numerosi. È un problema che va risolto alla radice. Certo che anche gli israeliani hanno avuto una strage inimmaginabile, e anche le reazioni antisemite che vediamo sono una sciocchezza universale che non fa altro che contribuire all’aumento di una tensione che diventa una tensione contro un popolo anziché contro i responsabili che hanno creato questa situazione. Ma è da quando è stato istituito lo Stato di Israele che noi ci siamo lavati la coscienza mettendo lì due realtà che prima convivevano e che da quel momento, non avendo pensato a come farle interagire, hanno cominciato a mettersi l’una contro l’altra.

Il Libano è un terreno di grande preoccupazione…

Il Libano è una culla di Chiese orientali. Se si estende lì la guerra avremo un’altra strage in un Paese già in ginocchio, come la Siria. Aver visto la Siria negli anni della prosperità e vederla oggi è come vedere Dresda dopo i bombardamenti della guerra. Se questa cosa, che ha sempre gli stessi registi, continua e si estende, noi avremo un ulteriore problema drammatico che si giocherà affinché non ci sia una stabilità politica interna, in maniera da manipolare meglio uno Stato acefalo. Questo ci preoccupa molto. E si potranno estinguere Chiese che attingono direttamente alla tradizione di Gesù e dei suoi primi discepoli. Non saranno più rimpiazzabili nella vita della Chiesa, esse, molte delle quali portano ancora, nella liturgia e non solo, la lingua di Gesù. Antiochia, per esempio, è la terra dove per la prima volta i cristiani sono stati chiamati tali: cosa ne è rimasto? Tra guerre e terremoto, adesso cosa è rimasto? I segni della memoria sono i segni della ripresa, perché noi costruiamo sulle nostre radici. Se ci portano via le nostre radici noi siamo orfani di prospettiva, di futuro. A questo proposito, c’è stata in Plenaria una bellissima testimonianza di una famiglia libanese emigrata negli Stati Uniti che ha deciso di tornare in Libano nonostante tutto, per ragioni esclusivamente di fede, per portare una fede genuina, autentica, che mobiliti il popolo, che faccia fiorire speranza e quella santità che il Libano le aveva dato. Adesso vivono nella povertà del Libano e sono i punti di riferimento soprattutto dei giovani perché i laici spesso sanno portare più speranza che il clero. Il clero alla fine è sempre in qualche modo chiuso in una gabbia istituzionale, diciamo, il laico invece fa sorgere dal basso la propria scoperta di Cristo. Noi non salviamo musei, queste Chiese non sono semplicemente il museo delle mummie, sono la mostra di una fede viva. Se si vede che qualcuno è andato ed è poi tornato accanto alla propria gente, è chiaro che questo aiuta quelli che ci sono a non andarsene.

Come è andata la visita ad limina dei vescovi in Etiopia?

Sono in difficoltà. Sono povere popolazioni. Le scuole, le chiese  distrutte. Il vescovo di Adigrat mi diceva che per mesi non poteva andare da casa sua alla cattedrale perché gli spari e i bombardamenti erano costanti. Se tu togli il rapporto con i giovani e i bambini, costretti a fuggire, cosa fai? Una casa di riposo! Diceva che neanche i vescovi potevano andare a trovarlo. Non si vedevano da quattro anni. Come fa uno a rimanere in un inferno simile? Deve andarsene via e subito. Diceva che i giovani stanno uscendo tutti, e che molti sono proprio quelli sui barconi che vanno a morire nel Mediterraneo. Ma lui è rimasto.

Eminenza, che appello fa all’Europa?

Abbiamo dimenticato i valori fondamentali dell’Europa e adesso andiamo a tastoni per vedere come si possono avere più voti. Ma i voti sono l’espressione di una fiducia popolare. Le astensioni sono la manifestazione di questa fiducia. Se solo pensassimo a figure di missionari coraggiosissime, come la Cabrini che è andata sulle navi degli emigranti, lei donna sola in quel tempo quando la donna non votava neanche, per capire che c’era bisogno di portare un minimo di solidarietà per mantenere la fede e un rapporto con Cristo… Cosa fece Caterina da Siena? Abbiamo donne formidabili nella storia della Chiesa che avevano il potere di dieci cardinali. Questi ruoli dove sono andati a finire? Sono solo ruoli di riconoscimento sociale che dobbiamo chiedere oppure c’è un immenso spazio per la fantasia che la donna ha per diventare nella Chiesa una voce potente e determinante? Lo Spirito suscita i carismi, ma noi siamo capaci di ascoltarlo? Io vorrei dire all’Europa solo questo: credete in quello che avete insegnato, non smentite quello che avete ricevuto dalla Grecia e che avete fatto sviluppare anche in termini di ragione, oltre che di fede. Sono arrivati i barbari, sono diventati cristiani, hanno portato avanti l’esistenza di una civiltà che altrimenti sarebbe fallita. Perché oggi non si può fare lo stesso quando abbiamo tutti gli strumenti a disposizione?

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28 giugno 2024, 17:00