Peña Parra, respinte le accuse dell'avvocato di Mincione: la Santa Sede vittima di frode
Salvatore Cernuzio – Londra
La Santa Sede è stata “vittima di grave frode” nella compravendita del Palazzo di Londra. Per tre volte il sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Edgar Peña Parra, lo ha ribadito nel suo terzo e ultimo interrogatorio presso la Royal Court of Justice della capitale britannica, nell’ambito del processo civile sull’affare dell’immobile di Sloane Avenue, in corso fino al 18 luglio.
Un’udienza caratterizzata da un clima di maggiore tensione rispetto alle precedenti e scambi a volte poco sereni, specie da parte dell’avvocato Charles Samek, difensore del finanziere Raffaele Mincione (condannato in primo grado dal Tribunale vaticano a dicembre 2023), la cui causa di quattro anni fa ha dato il via al procedimento, teso a dimostrare soprattutto la sua “buona fede” nelle trattative con la Segreteria di Stato.
Accuse
Il nome di Mincione, tuttavia, è stato menzionato solo dopo un’ora e mezza dall’inizio della seduta. Come già nelle udienze del 4 e del 5 luglio, le transazioni con il broker Gianluigi Torzi e in particolare il pagamento dalla Santa Sede di 15 milioni per riacquisire il controllo di una sua proprietà, hanno occupato buona parte delle domande dell’avvocato Samek. Il quale, a fine udienza, ha elencato 20 proposizioni contrarie alle posizioni della Santa Sede, che Peña Parra ha negato con decisione: "Non accetto nessuna delle vostre conclusioni". Tra queste, quella che il sostituto avrebbe dato informazioni parziali e incoerenti al Papa in una nota informativa in cui si accennava, tra l’altro, all’affaire Londra.
Il memorandum al Papa
È questo un punto - sul quale il sostituto aveva già risposto giovedì – che è stato chiarito da un documento prodotto a inizio udienza dal difensore della Segreteria di Stato, Samar Abbas Kazmi. Si tratta di un “appunto” del 2 maggio 2019 in cui Peña Parra, che aveva assunto il nuovo incarico 7 mesi prima, ricostruiva al Papa l’intera vicenda Londra. Quindi anche la questione del pagamento a Torzi, certificato con fatture che indicavano servizi da parte del broker non effettuati in realtà, dopo pressioni di quest’ultimo. Torzi, ha affermato monsignor Peña Parra in aula, minacciava di rivendere il palazzo. Lo dimostrava, ad esempio, “l’opuscolo” giunto negli uffici della Segreteria di Stato “una settimana prima dell'inizio del momento finale”, che diceva “apertamente che si intendeva vendere l’edificio”.
Omissioni e bugie
“Il signor Torzi voleva fare solo quello che voleva”, ha detto il sostituto. E lo faceva forte delle mille azioni con diritto di voto acquisite con un share purchase agreement, l’accordo siglato nel suo ufficio londinese nel novembre 2018 alla presenza di due funzionari della Segreteria di Stato, firmato “senza autorizzazione” dall’allora responsabile dell’Ufficio amministrativo monsignor Alberto Perlasca, e ratificato da Peña Parra dopo le rassicurazioni ricevute da colui che gli era stato presentato come il “nostro avvocato”, Nicola Squillace (condannato in primo grado): “Lui mi ha inviato un monumento di bugie”.
Torzi, invece, “dopo aver inviato quella falsa fattura” (su presunti servizi di gestione dell’immobile) “non ha avuto praticamente nessun contatto o pochi contatti” con la Santa Sede, ha rimarcato il sostituto, sottolineando che il broker era solito comportarsi in questa maniera. Già mesi prima, ha ricordato, “nel mio ufficio” aveva fatto fuori dal consiglio di amministrazione del fondo Gutt Fabrizio Tirabassi, ex funzionario dell’Ufficio amministrativo (condannato in primo grado), unico a rappresentare fino a quel momento la Santa Sede.
Trattative con Torzi
La tesi dell’avvocato Samek, perorata per tutto il tempo, era invece che con Torzi ci fosse un accordo. “Sono stati spesi mesi di trattative con una persona che aveva le sue buone ragioni di credere fraudolenta”, ha detto. “Ha pagato alla stessa persona 15 milioni quando lei e il Papa erano d’accordo a pagare 1 o 2 milioni”, ha detto al sostituto, in riferimento ad una iniziale cifra pensata per chiudere ogni rapporto con il broker.
Secondo Samek, inoltre, con l’accordo di novembre 2018 a Londra (framework agreement) era stato chiuso ogni rapporto con Mincione e le sue aziende. Quindi - ha domandato - dove sarebbe la tanto sbandierata “cospirazione” tra Torzi e il suo assistito? Tra vari punti, il sostituto ha insistito su uno in particolare a dimostrazione del rapporto fra Mincione e Torzi, e cioè il fatto che la moglie di Mincione continuava ad usufruire di un ufficio nel palazzo, già passato in gestione a Torzi, per una sua attività (“o qualcun altro lo utilizzava per lei”), senza pagare alcun affitto.
Le chat con monsignor Carlino
Il barrister (così si chiamano i legali che espongono l’accusa in tribunale) ha insistito facendo proiettare sugli schermi dei pc della piccola Aula 19 e poi leggendo per circa 15 minuti di fila tutte le chat tra il broker e l’allora segretario del sostituto, monsignor Mauro Carlino, unico assolto tra i dieci imputati del processo vaticano. Per Samek quei messaggi WhatsApp dimostrano che “il suo segretario era in contatto con Torzi per la formulazione di una fattura falsa”. Esattamente il contrario, ha ribattuto Peña Parra, secondo il quale proprio le risposte insistenti di Torzi sono la dimostrazione palese di quella che i giudici vaticani hanno configurato come “estorsione”.
Le attività del broker
“Non sono d'accordo su nulla. Questa è la sua versione delle cose”, ha affermato ancora il teste Peña Parra. “Noi abbiamo rifiutato quella fattura e le attività che Torzi ha detto di aver fatto per noi, ed è per questo che ho detto chiaramente al mio team che la mia lettera non era una fattura. Non ho detto una bugia”, ha affermato, sottolineando che la sua indicazione alla Credit Suisse per l’erogazione del bonifico di 5 milioni era “full and final settlement of all our contractual obligations (saldo finale e definitivo di tutti i nostri obblighi contrattuali)”. Gli allegati di questa email a Credit Suisse riportavano però altre motivazioni, tra cui servizi resi da Torzi per immobili di altre città.
Il ruolo del sostituto
“Io, sicuramente, sono responsabile di ciò che ho fatto, ma ho una squadra” atta alla distribuzione di documenti già discussi e approvati, ha chiarito il sostituto, aggiungendo con una punta d’ironia: “Di solito, sì, sono io che vado a mandare i fax personalmente”. In diversi passaggi Peña Parra ha ricordato l’importanza del suo ruolo e gli impegni che esso richiede, a fronte anche delle domande incalzanti dell’avvocato che sembravano non tenere conto delle filiere lavorative in Vaticano. “Non sono responsabile dell’Ufficio amministrativo per cui devo occuparmi di ogni fotocopia, ogni documento. Mi occupo delle grandi cose per ogni lavoro e responsabilità”.
Domande e risposte
In un sistema differente da quello italiano, con domande basate su date, numeri e documenti immediatamente trasmessi sui computer e immediatamente da inquadrare, Peña Parra talvolta è partito da lontano nelle sue risposte per offrire “un contesto” alla Corte. “Non è l’occasione per fare speech discorsi…", "sta distraendo dalla domanda”, lo ha interrotto l’avvocato, arrivato pure a contestare il diverso uso in alcuni documenti degli appellativi “Santo Padre” e “Santità”. Il legale stesso è stato richiamato dal giudice, Robin Knowles, a fare domande più brevi e mirate o a non insistere su punti ai quali il testimone aveva già risposto oppure di cui non aveva conoscenza. Come i 200 milioni pagati nel 2014 alla Sicav (la società-veicolo riconducibile a quelle di Mincione) in Lussemburgo. “Io non ero in Vaticano – ha replicato, laconico, monsignor Peña Parra - conducevo una vita felice in Mozambico”.
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui