Grech: il cammino sinodale prosecuzione del “sogno” missionario di Papa Francesco
Cardinale Mario Grech *
L’accostamento tra missione e sinodalità: un accostamento per così dire “sistematico”, messo in evidenza fin dal titolo. E questo perché missione e sinodalità non stanno l’una senza l’altra: si sostengono reciprocamente, crescono di pari passo e insieme concorrono a delineare il cammino della Chiesa nel Terzo Millennio. Di fronte all’annuncio di un Sinodo sulla sinodalità, qualcuno aveva paventato il pericolo di «introversione ecclesiale», per dirla con le parole di Evangelii Gaudium (n. 27), cioè di una specie di ripiegamento della Chiesa su se stessa e sui suoi meccanismi interni, in contraddizione con le esigenze di quella conversione missionaria cui l’ora presente chiama i credenti in tutto il mondo. Ma, in realtà, il cammino sinodale in corso non è che la coerente prosecuzione del “sogno” missionario che Papa Francesco illustrava così nello stesso paragrafo di quel documento: Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione.
La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia. Queste parole anticipano il “progetto” sotteso al cammino sinodale 2021-2024: un progetto che riguarda, appunto, la “trasformazione” degli stili e delle strutture ecclesiali, o più correttamente la loro “conversione”, in vista di un’azione pastorale più aperta ed estroversa. L’obiettivo del Sinodo è quello di una Chiesa che, apprendendo al suo interno uno stile più sinodale, sia per ciò stesso una Chiesa capace di una testimonianza più credibile e di un impegno missionario più efficace nel mondo. Anche per questo il Sinodo, che ha per titolo «Per una Chiesa sinodale», ha come sottotitolo «Comunione, partecipazione e missione». La parola «missione» appare per ultima non perché sia la meno importante, ma al contrario perché è quella che per così dire “preme all’esterno”, ad extra, verso il “mondo”. In certo modo il Sinodo, quale nuova tappa nella recezione del Concilio Vaticano II, sta realizzando uno sviluppo, inseparabilmente teologico e pastorale, intorno alla nostra concezione della missione.
Schematicamente, si potrebbe riassumere questo sviluppo intorno ad alcune parole chiave: 1) inclusione-periferia, 2) interculturalitàdecentralizzazione, 3) partecipazione-corresponsabilità. Un primo aspetto che il Sinodo sta facendo emergere è la crescente presa di coscienza che la Chiesa, se vuole essere fedele alla missione ricevuta da Cristo, deve diventare più capace di inclusione. Molte sintesi diocesane, nazionali e continentali – giunte a Roma in occasione della consultazione del 2021-2022 e di quella del 2023- 2024 – segnalano, non senza amarezza, il problema di una Chiesa percepita come una comunità esclusiva ed escludente: la Chiesa delle porte chiuse, delle dogane e dei pedaggi da pagare. L’inclusione non deve comportare, naturalmente, alcuna forma di irenismo, indifferentismo o relativismo. A dover cambiare non è il Vangelo, ma il nostro modo di annunciarlo. L’inclusione, proprio nella logica genuina del Vangelo, chiede di spingersi oltre i recinti, cioè verso i margini, i confini, le periferie. Precisamente la periferia – intesa, nell’accezione di Papa Francesco, come spazio antropologico o esistenziale, prima che come area geografica – è il primo campo della missione ecclesiale, sul quale il Sinodo sta attirando l’attenzione. Un secondo aspetto, conseguente al primo, riguarda l’attenzione che, nel processo sinodale, sta ricevendo la richiesta di un modello di Chiesa meno verticistico e centralistico, più capace di entrare in contatto vitale con la diversità dei popoli e delle culture nelle quali si incarna l’unico Vangelo di Cristo. In una parola: più capace di “interculturalità”.
Al Concilio abbiamo riscoperto che la “Chiesa” esiste nelle e dalle “Chiese”: singolare e plurale sono inscindibilmente connessi nell’unico mistero ecclesiale. Se tradizionalmente il Cattolicesimo ha puntato di più sul “singolare”, individuando nell’unità cum et sub Petro un presidio contro la dispersione e l’errore, oggi avvertiamo l’esigenza di riequilibrare il discorso facendo spazio al “plurale”, perché l’unità non degeneri nell’uniformità, spegnendo la fantasia dello Spirito Santo, che sparge semi di verità e di grazia nei diversi popoli e nelle loro variegate culture. L’esigenza di una sana decentralizzazione, di cui il Papa parla già in Evangelii gaudium 16, è stata rilanciata con vigore dal cammino sinodale, proprio perché solo nel dialogo con le culture, antiche e nuove, l’Annuncio del Vangelo potrà incidere in modo profondo e trasformativo sulla vita dei singoli e dei popoli. Una terza parola chiave del cammino sinodale è partecipazione: partecipazione di tutti e di tutte all’unica missione. La critica al clericalismo, che Papa Francesco ha ripetuto più volte, non è il frutto di una visione ideologica della realtà, fondata su una sorta di egualitarismo filosofico o politico, ma proviene dall’ansia missionaria del pastore. Il clericalismo, infatti, fiaccando le potenzialità dei laici e laiche in ordine all’opera dell’evangelizzazione, indebolisce la missione, rendendo la Chiesa più fragile di fronte alla sfida della penetrazione del Vangelo nel mondo. Esso riduce il numero degli agenti ecclesiali in servizio missionario, restringendo la missione ai soli chierici, e lascia i “semplici” battezzati in posizione di passività, come se il mandato missionario del Risorto non riguardasse anche loro.
Ecco allora che il cammino sinodale può aiutarci a riscoprire che una Chiesa più capace di partecipazione e corresponsabilità è una Chiesa ultimamente più capace di missione. I munera battesimali vanno intesi non come poteri, che oppongono qualcuno a qualcun altro, ma come abilitazioni al servizio dei fratelli, sul modello di Cristo servo di tutti per amore. Essi sono un “dono”, perché provengono dalla grazia di Dio, e al contempo un 3 “compito” o un “debito”, perché reclamano dai cristiani di impiegarli a vantaggio degli altri. Il loro fine è la comunione fraterna nella Chiesa e la testimonianza evangelica nel mondo, cioè la missione, più che l’esercizio di un potere di governo. Tutti questi elementi, elencati in rapida successione, sono ben presenti nell’accurata disamina di Fabio Nardelli. Lo ringrazio di cuore del suo contributo al rinnovamento in atto e auguro sinceramente a questa pubblicazione la più ampia diffusione.
Città del Vaticano, 29 giugno 2024, Solennità dei Santi Pietro e Paolo
* Segretario generale della Segreteria del Sinodo
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