Tracce di Vangelo nella Basilica Vaticana
Paolo Ondarza – Città del Vaticano
Fin dal primo Giubileo, nel 1300, ha esercitato un enorme richiamo tra i pellegrini di ogni parte del mondo. In Occidente è riconosciuta come la più importante immagine di Cristo. È la reliquia del Volto Santo, più nota come Veronica: secondo la tradizione è il sudario con il quale la pia donna durante la salita al Calvario avrebbe asciugato il viso insanguinato di Gesù. Quest’ultimo vi sarebbe rimasto impresso miracolosamente.
L’ostensione del Volto Santo
Le prime testimonianze che documentano la sua presenza nella Basilica di San Pietro risalgono all’VIII secolo. La sua ostensione avviene ancora oggi, ogni quinta domenica di Quaresima. In antico si svolgeva con maggiore frequenza e in special modo in occasione degli Anni Santi o dei grandi eventi che scandivano la vita della Chiesa o anche per scongiurare terremoti, pestilenze e carestie.
Le quattro Reliquie Maggiori
L’antica basilica costantiniana prevedeva un ciborio all’interno del quale la Veronica, vera-icona, era custodita. Altrettante strutture architettoniche erano presenti per le altre tre Reliquie Maggiori della Basilica Vaticana: la Sacra Lancia di Longino, il Legno della Croce e il capo di Sant’Andrea.
La Sacra Lancia
La prima è una parte dell’asta con la quale il centurione romano trafisse il costato di Cristo. Conservata nel tesoro sacro di Costantinopoli, fu donata a Papa Innocenzo VIII Cybo dal sultano Bajazet, figlio di Maometto II nel 1492, come segno di ringraziamento per l’accoglienza data a Roma al fratello Djem. La Sacra Lancia è offerta alla venerazione ancora oggi nella seconda settimana di Quaresima.
La reliquia della Croce
Rinvenuta in Palestina da Elena, madre dell’imperatore Costantino è invece la reliquia del legno della Croce. Da secoli è custodita in Vaticano insieme ai chiodi della crocefissione.
Il capo di Sant’Andrea
Infine il capo di Sant’Andrea, fratello di san Pietro: giunse a Roma per volere di Pio II Piccolomini nel 1462 tramite Tommaso Paleologo, ultimo despota della Morea, in seguito all’invasione turca del Peloponneso. La reliquia fu conservata inizialmente a Castel Sant’Angelo, poi traslata nella Basilica Vaticana dove è rimasta fino al 1966 quando Paolo VI la consegnò al Patriarca ecumenico di Costantinopoli Atenagora I, donandola alla città di Patrasso, dove il santo morì.
Le statue dei piloni
Edificata la nuova basilica, le Reliquie Maggiori vennero allocate nei piloni che sorreggono il peso della cupola michelangiolesca, adattati a questo preciso scopo da Gian Lorenzo Bernini, su incarico di Papa Urbano VIII. Nelle nicchie di ciascuno dei pilastri trovano posto rispettivamente le statue, alte quasi 5 metri, dei santi Veronica, Elena, Andrea e Longino. Solo quest’ultima è opera del celebre scultore seicentesco, autore del colonnato di Piazza San Pietro. Le altre furono affidate allo scalpello di Francesco Mochi, Andrea Bolgi e François Dusquesnoy.
In movimento verso i fedeli
Al di sopra delle teste delle grandi sculture marmoree è possibile scorgere quattro logge inquadrate da colonne tortili provenienti dall'antica basilica. In quella sovrastante la Veronica si trova la cappella al cui interno ancora oggi sono preservate le Reliquie Maggiori. Da questa balconata si svolge l’ostensione del Volto Santo. In epoche passate era un vero e proprio evento: la Basilica si riempiva di fedeli a tal punto che era previsto un servizio d’ordine per contenere e controllare la folla che in alcuni casi tentava di arrampicarsi pur di vedere da vicino il sudario di Gesù: un desiderio impossibile, concesso solo al Papa. Sembra voler rispondere all’anelito delle moltitudini di pellegrini che nei secoli si sono avvicendati a pregare in San Pietro, la grande statua della pia donna raffigurata da Mochi in movimento, con le vesti al vento, quasi prossima a saltare giù dal piedistallo per mostrare il Volto di Cristo impresso sul telo svolazzante.
Le quattro cappelline alla base dei piloni
Ci avviciniamo per guardarla e scorgiamo che al di sotto della scultura c’è una piccola, ma elegante scala a chiocciola. Consente di accedere ad una cappella delle Grotte Vaticane dedicata al Volto Santo e realizzata sempre dal Bernini. Lo scultore è immortalato, in un ovale pittorico sulla volta, nell’atto di presentare a Urbano VIII il progetto architettonico di riorganizzare tutta la zona circostante la Confessione che prevedeva di collegare ciascuna cappellina al sovrastante pilone.
La bellezza che resiste al tempo
Ad eccezione di quella dedicata a Sant’Andrea che è collocata sul percorso che consente ai pellegrini di transitare dalla Basilica alle Grotte Vaticane, si tratta di cappelline inaccessibili al pubblico, situate a pochi metri dalla tomba di Pietro.
Ciascuna di esse è decorata da un mosaico. I quattro quadri musivi sono stati oggetto di un recente restauro condotto dallo Studio del Mosaico Vaticano finalizzato a salvaguardare le opere dall’umidità e da altri fattori climatici che caratterizzano l’ambiente ipogeo.
Splendore inalterato
Nonostante siano ormai passati oltre tre secoli dall’impresa condotta da Fabio Cristofari a partire dall’estate del 1682, consistente nella riproduzione a mosaico della tele dipinte nella prima metà del 17mo secolo dal pittore laziale Andrea Sacchi, oggi è rimasto inalterato l’originario splendore delle tessere di smalto policromo che compongono questi pregevoli manufatti.
Le Reliquie Maggiori di San Pietro
I quadri di Sacchi, 1,20 x 2 mt, furono ispirati alle Reliquie Maggiori e rappresentano “Cristo porta Croce e Santa Veronica”, “Sant'Andrea adora la Croce del martirio”, “Il martirio di San Longino” e “Sant'Elena e il miracolo della vera Croce”; erano destinati ai piccoli sacelli delle Grotte Vaticane voluti da Papa Barberini.
L’intervento di Bernini
Per ovviare al problema della scarsa salubrità dell’ambiente, costruito sotto il livello del suolo, fu incaricato lo stesso Bernini che predispose ampliamenti ed aperture. Tali lavori erano finalizzati a favorire ricircolo d’aria, aerazione e luminosità.
I continui spostamenti delle tele
In Basilica le opere di Sacchi restarono circa trent’anni. Successivamente subirono vari spostamenti: dalla Sala del Concistoro in Vaticano al Palazzo del Quirinale, dalla Residenza Pontificia di Castel Gandolfo al Museo Petriano, per poi giungere infine nella Sala del Capitolo della Basilica di San Pietro: un luogo vivo nel quale si riuniscono ancora oggi i canonici di San Pietro.
Dipingere con le tessere
Eloquente il confronto tra le tele ed i mosaici: identici nelle dimensioni, sovrapponibili nello schema figurativo tipicamente post-tridentino nella sua chiarezza iconologica, nell’intensa carica emotiva e nell’elevato pathos mistico. “In questi mosaici – spiega Paolo Di Buono, responsabile della Studio del Mosaico Vaticano - i colori dei personaggi e degli scenari naturali che partecipano della narrazione sono ancora molto potenti, mentre nei dipinti risultano attutiti. Dal raffronto si comprende in modo evidente per quale motivo sia stata attuata la trasposizione in mosaico. Una grande difficoltà in questo passaggio fu data dalla resa degli incarnati. Cristofari utilizzò materiale lapideo, marmi, color carnagione. I suoi quadri sono al 70-80% realizzati in pasta vitrea” attraverso la cosiddetta tecnica romana, ovvero tessere ricavate dall’uso di martellina e tagliolo.
Per alcuni dettagli più minuti come le labbra del San Longino o la decorazione floreale della veste di Sant’Elena è stata adottata la tecnica del mosaico in filato, poco in uso in quegli anni, nata con ogni probabilità ad inizio Seicento in Vaticano e destinata ad esplodere come moda nel Settecento quando il micromosaico divenne di gran moda tra gli stranieri che compivano il Grand Tour e desideravano riportare in patria una riproduzione delle meraviglie ammirate in Italia.
La storia dei mosaici della Basilica Vaticana
Le quattro pale d’altare a mosaico delle Grotte Vaticane rivestono un valore particolarmente importante nella storia della Fabbrica di San Pietro: “Da un punto di vista tecnico – prosegue Paolo Di Buono - esse sono un anello di congiunzione tra il primo tentativo di tradurre a mosaico i capolavori pittorici della Basilica Vaticana, condotto ad inizio 17mo secolo da Giovanni Calandra e la successiva produzione settecentesca delle enormi pale d’altare, 4 metri per 7, oggi presenti in San Pietro”.
A differenza di queste ultime però i mosaici delle cappelline ipogee presentavano una sfida esecutiva di non poco conto. “Si tratta di opere di dimensioni non grandissime e che possono essere viste da vicino, rivelando così la tessitura e attutendo l’effetto quasi pittorico dato da una visione a distanza del mosaico.” Cristofari lavorò un tessellato di forma quadrangolare, piccolo, di dimensioni tra 1 ed 1,5 cm, idoneo a miscelare le tonalità di colore in modo appropriato. “Queste opere hanno fatto da apripista. Senza questa esperienza di Cristofari, sarebbe stato più difficile intraprendere la produzione a mosaico nel 18mo secolo delle grandi pale della Basilica”.
Tradizione e aggiornamento
Gli antichi documenti conservati negli archivi della Fabbrica di San Pietro raccontano la storia dell’affascinante mestiere dei mosaicisti vaticani. Una tradizione iniziata nel Cinquecento, quando sotto Gregorio XIII, la Basilica divenne il più grande laboratorio d’Europa nella pratica del mosaico. Il sapere e la pratica artistica di una tecnica resistente al tempo si sono tramandati di generazione in generazione all’interno dello Studio del Mosaico Vaticano, ufficialmente istituito da Benedetto XIII nel 1727.
“Lo Studio – prosegue Paolo Di Buono - ha questa duplice funzione: da una parte tramandare le antiche tecniche di realizzazione dell’opera musiva e dall’altra aggiornarsi sulle più avanzate tecniche di restauro, in contatto con altre realtà internazionali. Sono due attività diverse, ma strettamente collegate”.
Manutenzione e restauro
Mosaicisti e restauratori insieme: le maestranze vaticane, oggi 12 in tutto, negli ultimi anni si erano dedicate prevalentemente alla produzione di opere destinate alla vendita. “L’attuale intervento sulle cappelline delle Grotte Vaticane, fortemente voluto dal cardinale Mauro Gambetti”, arciprete di San Pietro, vicario generale per la Città del Vaticano e presidente della Fabbrica di San Pietro, “riporta lo Studio alla sua missione primaria di manutenzione e restauro dei mosaici della Basilica. Il nostro obbiettivo è programmare questa attività in modo regolare e sistematico”.
Le tappe del restauro
Ma come si è svolto il restauro? Il lavoro su un singolo quadro dura circa 20 giorni. Nulla è affidato al caso ed ogni decisione è condivisa dal team di esperti e responsabili della Fabbrica di San Pietro. Il primo step è una dettagliata campagna fotografica che documenti lo stato di conservazione. Segue la depolveratura, ovvero la rimozione della polvere dalla superficie musiva, dalle cornici in marmo di diaspro siciliano e da tutta la zona circostante il mosaico. Successivamente si passa ad una mappatura dello stato di salute dell’opera per capire dove intervenire. Si rilevano cioè eventuali distacchi di tessere o la presenza di restauri precedenti.
“Lo stato di conservazione di questi quadri è molto buono”, rivela il responsabile dello Studio del Mosaico Vaticano. “Non sono stati riscontrati distacchi significativi o problemi di fratturazione. Abbiamo effettuato una pulitura delicata della superficie con impacchi di polpa di cellulosa intrisa di bicarbonato di ammonio, per rimuovere la sporcizia senza intaccare le cere appositamente stese sul mosaico. Sono state riscontrate poche alterazioni cromatiche in alcune tessere lapidee ed in altre in smalto. Le tessere di colore carnagione sono quelle che subiscono le maggiori variazioni cromatiche, ma non si tratta di cambiamenti rilevanti”. Tale mutazione verso tonalità più scure è imputabile all’ossidazione di alcuni materiali, come il piombo. “La abbiamo riscontrata nelle grandi pale della Basilica in particolare nelle tessere rosse e rosate. Si tratta di variazioni della patina superficiale delle tessere che solitamente preferiamo non rimuovere”.
La pulizia e i ritocchi
“In alcune parti – prosegue Paolo Di Buono - tra le singole tessere la cera colorata era saltata e nell’interstizio compariva una malta chiara che, soprattutto dove il colore è più scuro, interrompeva l’uniformità cromatica. Dopo una pulizia con acqua demineralizzata, siamo intervenuti con piccolissime correzioni ad acquerello, una tecnica assolutamente reversibile. L’operazione finale ha riguardato invece l’abbassamento cromatico delle giunture tra le tessere”.
Il contatto con l’opera d’arte
In fase di restauro il contatto ravvicinato con capolavori senza tempo, oltre che emotivamente coinvolgente, consente di cogliere dettagli poco distinguibili altrimenti. È il caso della linea orizzontale che separa nettamente le due sezioni, lunetta superiore e riquadro inferiore, da cui sono composti i quattro mosaici di Longino, Veronica, Sant’Elena e Sant’Andrea. “Lasciare questa linea visibile – spiega Di Buono - significava per il mosaicista fornire un’indicazione a chi dopo di lui sarebbe stato chiamato a rimuovere e riassemblare l’opera”. Potremmo definirla un’istruzione di montaggio lasciata per garantire che questi capolavori in caso di strappo, ovvero distacco dal muro, non andassero distrutti.
Un patrimonio di arte e fede
“Questo importante restauro – conclude Paolo Di Buono – non è solo finalizzato alle singole opere musive, ma alle cappelline in generale”.
Oggi esse, con il loro incommensurabile patrimonio spirituale e storico artistico, sono lontane dallo sguardo del pubblico. Unica eccezione è il sacello di Sant’Andrea, di fronte al quale i pellegrini passano distrattamente nel percorso che dalla Basilica conduce alle Grotte Vaticane.
“Prestare attenzione ad aspetti come l’illuminazione di questi ambienti, ci consente anche di ipotizzare in futuro occasioni speciali per una loro eventuale fruizione da parte del pubblico”.
Testo e regia di Paolo Ondarza
Riprese e montaggio di Walter Capriotti
Fotografie di Anna Poce
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