La riconciliazione, non un cartellino da timbrare ma Sacramento della bellezza
Lorena Leonardi - Città del Vaticano
“I sacramenti includono tutta la nostra vita: la quotidianità, il nostro morire e vivere, mangiare, bere, lavorare, ma anche i nostri peccati, le debolezze e malattie. Tutto è ricondotto all’unità della condizione dell’uomo nuovo in Cristo. Attraverso la vita sacramentale, tutta l’umanità viene salvata”. Con queste parole il cardinale penitenziere maggiore Angelo De Donatis si è rivolto ai partecipanti — in gran parte laici — del terzo Seminario sulla Confessione dal tema “Facciamo festa… era morto ed è tornato in vita (Lc 15, 32)”, che si è aperto nel pomeriggio di ieri per concludersi oggi, 25 ottobre, al Palazzo della Cancelleria.
Riscoprire i misteri dei grandi doni sacramentali
Nel suo saluto, De Donatis ha detto che “l’uomo da una parte ha fatto stupende conquiste, dall’altra è smarrito, bisognoso di riscoprire la propria identità: cerca di liberarsi dalle chiusure, dalle dipendenze, ma prima o poi dovrà scoprire che non ce la fa”. Fino a che — anziché avere fiducia solo in sé stesso — non si fiderà di Dio e degli altri, vivrà “una dolorosa esperienza e sorgerà nel suo cuore una desolazione che porta alla disperazione”. Ecco, ha concluso il porporato, l’importanza di “riscoprire i misteri dei grandi doni sacramentali che la Chiesa ci offre”.
Perdonarsi, lasciarsi perdonare e perdonare gli altri
Su “Colpa, peccato, perdono: grammatica antropologica del quarto sacramento” ha riferito Cristiana Freni, della Pontificia Università Salesiana, approfondendo la ‘restituzione’ di sé stesso all’essere umano che avviene mediante la Confessione. Essenziale, in tale ottica, “fare i conti col fatto che l’uomo non è una realtà risolvibile all’esterno, dal punto di vista materiale, rivendicando così la trascendenza che è in noi” dotati costitutivamente di un “orizzonte di senso”. La ‘grammatica’ del quarto sacramento passa perciò, ha proseguito, “attraverso grandi aspetti dell’antropologia: rieducare all’interiorità — rispetto alla quale l’uomo del terzo millennio è poco allenato - accettarsi ‘esseri di limite’, eliminare il delirio dell’onnipotenza, fare i conti con la nostra povertà e perdonarci, lasciarsi perdonare e perdonare gli altri”.
Riportare le persone alla Vita
Don Fabio Rosini, direttore dell’Ufficio per la pastorale universitaria della diocesi di Roma, ha evidenziato che “attraverso la riconciliazione abbiamo l’opportunità di riportare le persone nella vita vera, quella senza limiti”. È inutile, ha chiosato, “cercare di aggiustare l’uomo se non gli si dà una rigenerazione. L’uomo è fatto per essere redento, la memoria della bellezza è in lui”. Il sacerdote ha raccontato: “Ogni volta che un ragazzo viene a confessarsi devo essere quel profeta, quel giusto che desidera per lui la grandezza, devo riportarlo alla sua sublimità. Forse ci metterà tempo, perché la libertà è l’unica strada dell’amore, ma il Cielo senza di lui non sarebbe lo stesso”.
Come (non) confessarsi
Ha incoraggiato a “essere apostoli della Confessione, senza avere paura di questo sacramento” il vescovo Krzysztof Józef Nykiel, reggente della Penitenzieria apostolica, nel suo intervento su “Come (non) confessarsi. Accortezze e suggerimenti per una buona confessione” che ha aperto la sessione odierna dei lavori, offrendo in modo divulgativo cenni su aspetti pratici legati al sacramento che Papa Francesco chiama ‘della guarigione e della gioia’.
Per fare una buona confessione, ha premesso il presule, “ci vuole in primis la fiducia nell’amore misericordioso di Dio e la sincerità del cuore, evitando ogni sorta di diplomazia e di scaltrezza, perché non sono questi gli atteggiamenti che aprono alla grazia, ma la vera contritio cordis”. Quando si pronuncia la parola ‘confessione’, ha osservato Nykiel, “per alcuni suona come qualcosa di sgradevole che sarebbe meglio evitare. È vero che confessare i peccati commessi non è la cosa più piacevole che si possa immaginare” ma “ci sono molti doveri nella vita che non sono piacevoli e che devono essere compiuti”. Al di là dei numerosi argomenti che si possono addurre per non andare a confessarsi, ha sottolineato il reggente, “oggettivamente nessuno di essi giustifica la privazione di questo grande sacramento”.
I cinque passi della Confessione
Dunque ha esposto i cinque passi per una buona confessione, come indicato da catechismi, testi religiosi e devozionali: esame di coscienza, atto di dolore, intenzione di emendare al male compiuto, confessione dei peccati, adempimento della penitenza.
Esame di coscienza e atto di dolore
Tra i vari metodi per l’esame di coscienza, monsignor Nykiel ha elencato il confronto con i dieci comandamenti, quello con le virtù cristiane e umane, la disamina di come si adempie ai doveri verso Dio e gli altri. Nell’esame di coscienza, ha suggerito, “può essere utile scrivere i propri peccati su un foglio di carta, ma dopo la Confessione non bisogna dimenticare di distruggere quel foglio”, con un gesto simile “a quello che Dio fa con i peccati: dopo l’assoluzione non esistono più”. Una volta ‘identificati’ i peccati, il penitente deve pentirsene, ossia “addolorarsi per i peccati commessi”, e per farlo il suggerimento è “pensare all’amore infinito di Dio per noi e a quanto siamo ingrati”.
Intenzione di emendare, Confessione, penitenza
Strettamente legata all’atto di dolore o di pentimento è l’intenzione di fare riparazione, anche perché “se non c’è la volontà di fare riparazione, cioè di correggersi, non ci può essere un vero pentimento”. Al momento della Confessione è obbligatorio menzionare tutti i peccati gravi non confessati commessi dall’ultima Confessione, ma “è anche conveniente”, questa l’indicazione del presule, confessare i peccati veniali, così da “ricevere più grazie da Dio”. Quando si confessano i peccati gravi, ha specificato, “è necessario indicare approssimativamente quante volte li abbiamo commessi e le circostanze che aggravano o cambiano la natura del peccato” perché, ad esempio, “rubare in un supermercato non è la stessa cosa che rubare in una chiesa” e “l’adulterio non è la stessa cosa del peccato di fornicazione”.
In ogni caso non bisogna “avere paura di confessare i nostri peccati, per quanto grandi possano essere, perché il confessore non si spaventerà: è praticamente impossibile dire un peccato che il confessore non ha mai sentito in vita sua”. Tacere volontariamente un peccato, però, ha ammonito, “è un sacrilegio e la confessione sarà nulla” pertanto se non siamo disposti a confessare tutti i nostri peccati gravi, “è meglio non confessarsi”. Diverso è se si dimentica un peccato grave: in questo caso, la Confessione è valida, ma il penitente è obbligato a confessare il peccato dimenticato nella Confessione successiva e tra le due confessioni, può ricevere la Comunione. Quanto alla penitenza, il reggente ha chiarito che “non è per punirci, ma per aiutarci a riparare i nostri peccati”.
Accortezze pratiche
Infine ha passato in rassegna alcune accortezze pratiche, dai confessionali a griglia “per rispettare il desiderio di molti fedeli di non essere riconosciuti” alla frequenza ideale — “dipende, confessarsi non è un ‘cartellino da timbrare’, ma è bene confessarsi spesso” — per approdare alla questione del segreto sacramentale, che in nessun caso può essere violato, nemmeno dopo la morte del penitente o se il Papa dispensasse il confessore dall’obbligo.
Essere "amici" della Confessione
Nykiel ha dunque incoraggiato a “essere amici” del sacramento, che non fa perdere nulla ma consente di guadagnare molto. E ha concluso confidando come sia impressionante — nella liturgia penitenziale che Papa Francesco celebra dall’inizio del pontificato a San Pietro in Quaresima — “vedere il Santo Padre andare in un confessionale e inginocchiarsi per confessare i suoi peccati. Questo gesto è stato un grande esempio per tutti i cattolici. Il Papa, i cardinali, i vescovi, i sacerdoti, tutti si confessano come i laici”.
A seguire nella mattinata, don Marco Panero, prelato consigliere della Penitenzieria, è intervenuto su “Bisogna proprio confessarsi? Argomenti sempre attuali (e consolanti)” e padre Ján Ďačok dell’Università slovacca di Trnava ha parlato della “confessione come opportunità di sperimentare la grazia”.
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