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Suor Maria Ignazia Angelini Suor Maria Ignazia Angelini

Sinodo, la meditazione di Madre Angelini del 7 ottobre

Pubblichiamo il testo integrale della riflessione tenuta dalla religiosa benedettina stamani, nell'Aula Paolo VI, dopo la preghiera di apertura

di Madre Maria Ignazia Angelini

Il Vangelo di oggi, cuore del racconto di Luca, “teologo delle relazioni” (Bovon) ci ha accolto e c’introduce in questa nuova tappa: grazia sorgiva per affrontare la Parte I.a dell’IL. Nella parabola del samaritano, implicitamente troviamo come tracciata, in simbolo, una mappa del cammino sinodale. Che nelle relazioni ha la sua rete portante. Relazioni in cui, prima ancora che di “fare”, si tratta di “vedere”. Il vedere che è alla base della spiritualità sinodale: “Ubi amor ibi oculus”: dov’è amore si apre una nuova visione.

Prossimità sorprendenti, rivela la parabola che Gesù racconta al nomikòs, per rivelargli che il mistero del Comandamento si comprende solo attraverso l’evento della relazione. E possiamo vedere raffigurato lo stesso cammino sinodale: la via che da Gerusalemme “scende” a Gerico è l’orizzonte a tutti i possibili percorsi. Il cammino sinodale, partito a molti livelli, e in molte direzioni – a seconda dei continenti, delle nazioni, dei contesti, delle collaborazioni -, è unico. Ma per coloro che lo percorrono – ci rivela il Vangelo -, si aprono visioni diverse: vedere e passar oltre, distanziandosi dall’altra parte. Nei dialoghi sinodali, quante storie si incrociano, quante attese deluse, oppure – trasformante! - quale sguardo potrà maturare ...

In tal senso, radicale e generativa è la parola dell’Evangelo che oggi ci è annunciato. Proprio oggi, in un’ora buia, per il mondo intero: guerre fratricide in cui si distoglie lo sguardo per non vedere il Cielo, travolti in una spirale senza remissione, che lascia l’umano pareggiato alla terra -“mezzo morto” (Lc 10,30).

“Sinodalità per la missione” sentiamo ripetere in questi giorni, sì: ma quale missione? “Un uomo scendeva” (Lc 10,30). Quella discesa da Gerusalemme a Gerico è modello di tutti i tragitti della missione. Lo sguardo che “scendendo” vede la sventura sconvolge le viscere e trasforma il samaritano in prossimo; trasforma i rapporti di colui che – per sé – era ritenuto non averne di buoni (Gv 4,9b): non potrà più staccarsi dal “mezzo morto” che d’improvviso gli si è parato dinanzi. Una dimensione materna, viscerale, trasforma il lontano in vicino (Ef 2,13). La Chiesa “misericordiata”, in misericorde.

La missione, oggi, in questo oggi segnato da tanta violenza manifesta o camuffata – in fedeltà all’invio originario -, si ripropone radicalmente diversa, come stile, da metodi e strategie che fino a poco fa parevano tenere. Oggi, forse - il Vangelo è ispirante! – la missione deve trovare come aprire lo sguardo alla beatitudine di vedere con occhi di compassione. Missione a cielo aperto, a mare aperto: senza riparo - ma non senza un criterio: convertirsi alla misericordia. Viscere materne.

Leggiamo nell’I.L.: “... è nelle relazioni – con Cristo, con gli altri, nella comunità – che si trasmette la fede”. “... relazioni capaci di corrispondere all’amore divino che continuamente li raggiunge e che essi sono chiamati a testimoniare nei contesti concreti in cui si trovano ... una conversione relazionale, che riorienti le priorità e l’azione di ciascuno”. (I.L., 21).

Relazioni che dicono Dio, non se stessi. Come vedeva nitidamente il vescovo Teofilo (nel II secolo): “Se dici: Fammi vedere il tuo Dio, io ti dirò: Fammi vedere l'uomo che è in te, e io ti mostrerò il mio Dio. Fammi vedere quindi se gli occhi della tua anima vedono e le orecchie del tuo cuore ascoltano”. (Teofilo di Antiochia – II sec. – Ad Autolico). Già: missione è questione di occhi e di viscere. Per questo più o meno confusamente percepiamo che è importante riscoprire, nella chiesa sinodale, i ministeri delle donne.

L’evangelo, oggi, ci istruisce. Di ciascuno dei quattro personaggi che pure camminano per la medesima strada – che “scende, da Gerusalemme a Gerico”: ma potremmo sostituire con tanti nome di città nostre, oggi –, lo stile è ben diverso. Un uomo sprovveduto, un brigante, un sacerdote, un levita, un samaritano. “Fammi vedere l'uomo che è in te, e io ti mostrerò il mio Dio”. Si tratta di ricevere il passo, lo stile, da Dio (Ef 5,1), che nel suo originario dinamismo di “discesa”, kenotico, si è rivelato. Fino al compimento - negl’Inferi.

I Padri l’hanno subito riconosciuto: nella parabola è narrata la storia del genere umano – quell’ “uomo” che scende da Gerusalemme è l’Adam. Ma al tempo stesso, la parabola racconta di Gesù, il suo viaggio decisivo di “discesa”, fino a identificarsi – attraverso materne viscere di compassione – con la nostra abiezione. E l’olio per ridare bellezza al nostro volto, e il vino per rallegrare il cuore.

Ma quel samaritano non si fa padrone: conduce, raduna altri, affida, crea una rete di relazioni, intesse una cultura della gratuità. E così narra di noi, della chiesa raffigurata come “pan-docheion” (10,34): luogo in cui tutti sono accolti. Luogo della gratuita cura. Siamo provocati così a essere in verità chiesa sinodale.

 Per la quale la tentazione rimane: “Passò oltre, dall’altra parte” (v. 31.32): un verbo cruciale. L’altro nel bisogno diventa invisibile per chi è tutto preso dai propri programmi, urgenze, evidenze auto riferite. L’indifferenza è il male di una società complessa, globale - ma anonima. Male che tenta in molti modi anche la chiesa sinodale – e a partire proprio dallo stile celebrativo.

La punta della parabola è in quel “vedere” che riconosce l’altro e mi intima di farmi prossimo (Lc 10,33); il vedere che infligge la ferita, fa scattare il sommovimento interiore da cui parte l’atto dell’ “erede” della vita eterna, l’atto propriamente divino: l’umile compassione. Il lampo di luce che opera questo vedere, è scoccato dall’uomo nella necessità. Il quale può essere perfino fenomeno ripugnante (san Francesco lo apprende bene dall’incontro col lebbroso); o rivelazione sconvolgente. Evidenze nuove maturate attraverso l’incarnazione, la con-corporeità.

“Fa’ questo e vivrai”, è l’intimazione conclusiva della parabola. Che rimane aperta. Non si sa che cosa il nomikòs farà. Non è sicuramente un fare come quello che s’aspettava: coinvolge in una serie di riconoscimenti che solo la forza di rivelazione del Vangelo può operare:

Prendersi cura, da samaritano chino su anonimo giudeo sventurato; accettare e rielaborare le differenze, e subito tendere alla costituzione di un pandocheion: una rete di relazioni ospitali. Una cultura della gratuita, umile compassione. Solo la rivelazione del Figlio “che discese” può aprire gli occhi e il cuore a vedere (“... e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” Lc 10,22); e può realizzare questa prossimità improbabile, intimando il “fare” sorprendentemente semplice, capace di edificare una umanità fraterna.

L'altro nel bisogno è rivelazione sconvolgente. Che converte il cuore e ridisegna il mondo. Crea una cultura.

Il samaritano della strada “che scende” è per il cammino sinodale simbolo e principio in una nuova spiritualità, alternativa a ogni spiritualismo di sacrestia, o d’intimità protetta. Attraverso nuovo discernimento spirituale: dell'interiorità espropriata. Dell'umiltà irradiante. L'uomo spirituale è colui che “vede” l'altro nella fragilità estrema, mezzo morto. E, preso da compassione, si ferma nei suoi programmi, si fa prossimo. Come l’unico “erede” – Gesù; e come l’Abbà che in lui si rivela.

Alla luce di questo Vangelo possiamo cercare di leggere nella fede la crisi che attraversiamo e la missione evangelizzatrice della Chiesa. Poiché è importante, decisivo, che noi riflettiamo sul nostro esserci - chiesa di oggi, anch’essa ferita e “misericordiata” -, nella cultura.

E dunque come comprendere – attraverso la crisi, incamminati insieme sulla “strada che scende” - la chiamata divina nell’oggi? Lo Spirito di Dio ama dimorare nei luoghi della liminalità. I bordi della strada che da Gerusalemme scende a Gerico. È principio di un ribaltamento dell’orizzonte dello spirituale. Un ribaltamento che in Gesù di Nazaret ha trovato piena rivelazione. La liturgia non sacrale dell’incontro con l’altro, appresa dal Mistero della celebrazione liturgica, è il nucleo ardente dello stile dello Spirito.

La nostra natura umana è in radice imbevuta di relazioni. Dunque, prima o poi, giunge un momento nella vita di ciascuno di noi, in cui dobbiamo scegliere se fermarci o passare oltre. E – fermandoci -, scegliere se e come ridisegnare il mondo e la cultura. A partire da relazioni gratuite. Benedette da olio a profusione, e vino, giumento, pandocheion.

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07 ottobre 2024, 12:14