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Il cardinale Kurt Koch Il cardinale Kurt Koch 

Koch: il dialogo tra Oriente e Occidente, aiuto a superare le “malattie culturali"

Il cardinale presidente del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani è intervenuto il 20 novembre scorso alla conferenza sul “valore del dialogo interculturale e interreligioso e la carità operosa”, promossa dall’Associazione internazionale Carità Politica, presieduta da Alfredo Luciani. Tra gli ospiti gli ambasciatori di Grecia e Perù presso la Santa Sede. Il testo dell’intervento del cardinale Koch

Kurt Koch

Una parte del “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune”, pubblicato congiuntamente da Papa Francesco e dal Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, è dedicata al necessario dialogo tra Occidente e Oriente, nella convinzione che, grazie allo scambio tra le culture, entrambi possano arricchirsi imparando l’uno dall’altro e aiutandosi anche a superare le proprie malattie culturali.

1.    Religione, culto e cultura

 Ciò che questo documento afferma in modo generale sul dialogo tra mondi culturali diversi può essere applicato in modo particolare all’ambito religioso. Infatti, non solo il termine “cultura” e la sua realtà dipendono etimologicamente dalla parola “culto”, ma la cultura affonda essenzialmente la sua origine nel culto. Uno sguardo alla storia mostra che in tutte le culture la religione è un elemento fondamentale, addirittura il fulcro determinante, nel senso che determina la struttura di valori della cultura e quindi anche il suo sistema di ordine interno. Tuttavia, nell’Europa moderna, predomina ormai un concetto di cultura che la mostra come un campo contrapposto alla religione, o quantomeno separato da essa.

Si tratta di un’eccezione, i cui problemi andrebbero discussi separatamente. Tuttavia, il dialogo interculturale può essere illustrato nel modo migliore in termini religiosi e quindi anche ecumenici. A questo proposito, soprattutto Papa Giovanni Paolo II ha tematizzato la necessità di un dialogo culturale sottolineando che l’Europa, per il bene del suo futuro, dovrà imparare a respirare di nuovo con entrambi i polmoni, con quello orientale bizantino e con quello occidentale romano. E nella sua enciclica “Slavorum Apostoli” ha citato come esempi lodevoli i santi Cirillo e Metodio, provenienti da Salonicco, che tradussero e portarono il Vangelo nel mondo slavo. I santi Cirillo e Metodio erano infatti convinti che il Vangelo di Gesù Cristo potesse essere proclamato e compreso in modo adeguato solo nella lingua e nella cultura di ciascun popolo e solo se i diversi popoli leggono le Sacre Scritture e celebrano la liturgia nella propria lingua. Papa Giovanni Paolo II si è riferito all’importante missione dei due apostoli slavi con le seguenti parole: “Incarnando il Vangelo nella peculiare cultura dei popoli che evangelizzavano, i santi Cirillo e Metodio ebbero particolari meriti per la formazione e lo sviluppo di quella stessa cultura o, meglio, di molte culture.”

L’esempio dei due apostoli slavi mostra che il dialogo tra le culture è utile e necessario anche e soprattutto da un punto di vista religioso. Tale necessità è evidente anche in caso negativo, quando l’incontro tra culture diverse non va a buon fine e si arriva a una reciproca alienazione. Già le prime grandi divisioni della cristianità nella Chiesa tra Oriente e Occidente non avvennero infatti per motivi esplicitamente teologici, ma furono piuttosto dovute a un profondo allontanamento culturale tra le due parti.

2.     L’allontanamento culturale come causa principale delle divisioni nella Chiesa

Questo è vero già per le prime grandi divisioni nella Chiesa tra Oriente e Occidente nel IV e V secolo, perché singole comunità ecclesiali in Oriente non accettarono le decisioni dottrinali cristologiche del Concilio di Calcedonia del 451 e si separarono dalla Chiesa dell’impero. 3 Il Concilio si era pronunciato a favore della definizione secondo la quale Gesù Cristo, in quanto vero uomo e vero Dio, 1 Conferenza presso l’Associazione Internazionale Carità e Politica il 20 novembre 2024. 2 Giovanni Paolo II, Slavorum Apostoli, n. 21. 3 Vgl. K. Kardinal Koch, Jesus der Christus: Grund der Einheit oder Motiv der Trennung? in: Th. Hainthaler / D. Ansorge / A. Wucherpfennig (Hrsg.), Jesus der Christus im Glauben der einen Kirche. Christologie – Kirchen des Ostens – Ökumenische Dialoge (Freiburg i. Br. 2019) 365-384. 2 è una sola persona in due nature “senza confusione, senza cambiamento, senza divisione, senza separazione”. Le Chiese che rifiutarono la formula cristologica del Concilio lo fecero perché la fraintesero, pensando che il Concilio stesse parlando di due soggetti e quindi sostenesse una dottrina di due Figli. Per evitare tale “eresia”, queste Chiese si riallacciarono alla convinzione di fede espressa in particolare da Cirillo di Alessandria con la formula che non ci sono due nature in Cristo, ma che l’unica natura divina si è fatta carne in Gesù.

I dialoghi ecumenici tenutisi dopo il Concilio Vaticano II hanno molto presto condotto all’incoraggiante conclusione che la disputa di allora sulla confessione cristologica ortodossa fosse un problema culturale, e più precisamente linguistico. Dalle due parti coinvolte nella disputa i concetti filosofici e teologici di physis e prosopon, di natura e persona, venivano usati e compresi in modo molto diverso nei rispettivi contesti culturali, anche se fondamentalmente volevano testimoniare la stessa fede ecclesiale in Gesù Cristo. Questo consenso teologico raggiunto nei dialoghi ecumenici è stato poi ripreso e confermato nelle dichiarazioni cristologiche tra il Vescovo di Roma e i capi di varie Chiese ortodosse orientali.

La consapevolezza che, dietro i problemi teologici alla base delle divisioni verificatesi nella Chiesa nel corso della storia, risiedono in gran parte differenze culturali si rafforza maggiormente se si guarda alle scomuniche reciproche pronunciate da Roma e da Costantinopoli nel 1054. Le differenze culturali nella Chiesa d’Oriente e d’Occidente contribuirono in modo significativo alla progressiva incomprensione tra i fedeli delle due parti. Le comunità ecclesiali in Oriente e in Occidente si allontanarono sempre più le une dalle altre, tanto che questa reciproca alienazione culturale deve essere considerata la causa effettiva della successiva separazione. Un ruolo non trascurabile lo ebbero i diversi comportamenti influenzati dalle rispettive culture, che spesso generarono fraintendimenti e diffidenza, e che talvolta erano legati a questioni considerate oggi aspetti superficiali, quali la barba del clero o altre istruzioni disciplinari, o manifestazioni di una legittima diversità all’interno di una data unità, quali l’uso del pane lievitato o non lievitato nella celebrazione eucaristica o altre differenze nei riti o nei diversi calendari liturgici, tra cui, soprattutto, la diversa data di Pasqua.

Questo reciproco allontanamento ha contribuito in larga misura alla successiva divisione nella Chiesa in Oriente e in Occidente, come giustamente osserva il Cardinale Walter Kasper: “La cristianità non si è divisa primariamente a causa di dispute intorno a diverse formule dottrinali, ma a causa di diversi modi di vita”. Il superamento di questi progressivi distanziamenti è possibile solo attraverso l’incontro e il dialogo tra le Comunità ecclesiali nell’amore e nella pazienza. Il dialogo ecumenico della carità e il dialogo della verità tendono a questo obiettivo.

3.     La relazione fondamentale tra fede e cultura

Uno sguardo alla storia ci mostra che le grandi divisioni nella Chiesa in Oriente e in Occidente sono dovute principalmente alla diversità tra mondi culturali che si sono allontanati l’uno dall’altro. Si può quindi ipotizzare che, in senso inverso, l’incontro e il dialogo tra le culture potranno offrire un contributo essenziale alla comprensione e alla riconciliazione nella cristianità ecumenica.

Per chiarire ciò, è opportuno esaminare brevemente la relazione tra fede cristiana e cultura. Risulterà allora evidente che già la fede di Israele nell’Antico Testamento ha trovato, nel corso della storia, la sua forma decisiva confrontandosi e scontrandosi con culture molto diverse − egizia, ittita, sumera, babilonese, persiana e greca − culture che erano anche religioni. Questa variegata storia culturale della fede di Israele si protrae anche nel cristianesimo. Di fatti, il cristianesimo porta in sé, già nel Nuovo Testamento, i frutti di un’intera storia culturale, che prosegue in seguito nell’incontro con molte altre culture. L’incontro tra la fede cristiana e il pensiero greco ha indubbiamente svolto un ruolo importante in questo senso, anche se ciò non è avvenuto solo nella Chiesa primitiva, ma è già riscontrabile all’interno del messaggio biblico. Non bisogna dimenticare che la fede cristiana non è nata in Europa, ma in Medio Oriente e quindi nel luogo dove si incontrano i tre continenti di Asia, Africa ed Europa. Ciò significa che l’incontro tra varie culture rappresenta una caratteristica costitutiva del cristianesimo fin dai suoi inizi

La ragione più profonda di questa stretta relazione tra fede cristiana e cultura va ricercata nel fatto che la fede cristiana stessa è cultura. Infatti, quando la fede inizia a riflettere sull’uomo, sul mondo e su Dio, essa rende possibile lo sviluppo della cultura e diventa essa stessa cultura. La fede cristiana non esiste nuda, solo come religione, ma esiste solo come cultura. In questo senso − se mi è consentito il paragone − la fede è molto simile all’alcol, che può essere consumato solo se non viene assunto puro, al cento per cento, ma si combina con altre sostanze. In senso analogo, il messaggio della fede cristiana non è chimicamente puro e astratto, ma è maturato nella storia in un lungo periodo di tempo e tramite diversi incontri interculturali, creando una forma culturale di vita attraverso la relazione con le persone, con il mondo e con Dio; e questo è quanto esso continua a fare tutt’oggi.

Se la fede stessa è cultura, non è adeguato parlare di inculturazione. Tale termine presuppone che ci possa essere una fede senza cultura e una cultura senza religione e che quindi una fede spoglia di cultura entri in una cultura indifferente alla religione, in modo che due soggetti prima estranei si incontrino e formino una nuova sintesi tra loro. Si tratterebbe però di un’ipotesi antistorica e soprattutto irrealistica. Se, invece, la fede stessa è cultura, allora ha senso parlare di interculturalità o di incontro di culture e di dialogo tra culture.

A ciò si collega un’altra importante intuizione. L’incontro tra le culture, e quindi l’interculturalità, è possibile solo se si parte dal presupposto che esista una verità comune, che è ricercata e accettata in tutte le culture, cioè se si riconosce la potenziale universalità di tutte le culture e la loro apertura profonda l’una all’altra, come ha giustamente sottolineato il teologo Joseph Ratzinger: “L’incontro tra le culture è possibile perché l’uomo, in tutta la diversità che caratterizza la sua storia e la formazione delle sue comunità, è un unico e medesimo essere”. Poiché questo unico e medesimo essere, l’uomo, non è solo aperto alla verità, ma è anche bisognoso e capace di riconoscerla, si spiegano “l’apertura fondamentale di tutte le persone le une verso le altre” e “le somiglianze essenziali che esistono anche tra le culture più lontane.”

4.    L’ecumenismo culturale tra Oriente e Occidente

Partendo da questi presupposti fondamentali, dobbiamo ora chiederci come un ecumenismo culturale tra Oriente e Occidente possa servire alla comprensione e alla riconciliazione tra le Chiese cristiane. Così come, nella Dichiarazione di Abu Dhabi, Papa Francesco e il Grande Imam Al-Tayyeb hanno espresso l’augurio di un arricchimento culturale reciproco grazie al dialogo tra Oriente e Occidente, sarà necessario esplorare nuove vie, in termini religiosi ed ecumenici, che permettano alle Comunità ecclesiali in Oriente e in Occidente di avvicinarsi, comprendersi meglio e imparare l’una dall’altra. Al riguardo, occorrerà seguire la regola di vita ecumenica che il Decreto sull’ecumenismo del Concilio Vaticano II chiama “scambio di doni”. In questa prospettiva, alcuni esempi illustreranno ciò che le Comunità ecclesiali dell’Occidente potrebbero imparare dalle Chiese dell’Oriente e viceversa.

a)     La riscoperta della dimensione cosmica in Occidente

Sfogliando la dogmatica in tre volumi del teologo ortodosso rumeno Dumitru Staniloae, dopo la prima parte dedicata alla dottrina ortodossa su Dio, si trova il titolo della seconda parte: “Il mondo come opera dell’amore di Dio destinato a essere divinizzato”. Questa parte è suddivisa in “Creazione del mondo visibile” e poi in “Creazione del mondo invisibile”. Staniloae sottolinea che questo approccio teologico differisce fondamentalmente dalla tradizione occidentale, affermando: “Nella teologia occidentale si è spesso cercato di separare la redenzione dell’uomo da quella della natura. Il cristianesimo orientale non ha mai separato le due cose”, perché l’uomo “non può essere concepito al di fuori della natura e del cosmo”: “Secondo la nostra fede, ogni essere umano, in un certo qual modo, è un’ipostasi dell’intera natura cosmica, sempre in stretta connessione con le altre creature”, e “l’intera natura è destinata alla gloria di cui gli esseri umani diventeranno partecipi nel Regno della compiutezza”.

Mentre il pensiero occidentale, soprattutto in epoca moderna, si è concentrato sulla redenzione dell’uomo e ha quindi adottato un approccio fortemente antropocentrico, perdendo in gran parte la dimensione cosmica della fede e del pensiero cristiani, nella tradizione ortodossa è impossibile comprendere l’uomo e la sua redenzione al di fuori della natura e del cosmo. Certamente, la consapevolezza della crisi ecologica ha portato a un ripensamento anche nella tradizione occidentale; di conseguenza, la teologia della creazione non è più relegata nell’ombra, come lo è stata in epoca moderna, e si è sviluppata anche un’“etica ambientale”, sebbene la stessa parola “ambiente” sia tornata a essere un termine antropocentrico. Ciò che si può e si deve continuare a imparare dalla tradizione ortodossa è comunque l’ulteriore sviluppo della dimensione cosmica in tutti gli ambiti della fede cristiana e del suo pensiero teologico.

A ciò è legata una seconda differenza fondamentale, particolarmente evidente nel modo in cui viene concepita e praticata la liturgia. Nella scienza liturgica della tradizione occidentale, l’accento è posto in gran parte sull´assemblea e su come la liturgia debba essere organizzata in modo da corrispondere alla comunità dei fedeli. Nella teologia della Chiesa orientale, invece, la liturgia è intesa e celebrata come un evento cosmico. Questo perché tale tradizione conserva la saggezza storica secondo la quale culto e cultura sono inscindibili, e la liturgia divina è un’anticipazione della glorificazione celeste di Dio, ovvero del canto di lode escatologico di tutto il creato. Non è un caso che Papa Benedetto XVI, da conoscitore e apprezzatore della teologia ortodossa, abbia visto la mancata rivitalizzazione della dimensione cosmica della liturgia come una grave carenza della tradizione occidentale, da superare partendo da questa intuizione: “La liturgia cristiana è un evento cosmico – il creato prega con noi, noi preghiamo con il creato, e allo stesso tempo si apre la strada alla nuova creazione che tutto il creato sta aspettando.”

Nella tradizione ortodossa, la dimensione cosmologica è quindi strettamente legata a quella dossologica. Teologia e dossologia non possono essere distinte in maniera netta, tanto meno separate l’una dall’altra, come spesso accade nella tradizione occidentale. Nell’ortodossia, il discorso teologico su Dio può essere credibile solo se nasce da un discorso dossologico rivolto a Dio e vi confluisce. Questa visione è persino inscritta nel termine “ortodossia”. Infatti, il significato primario della parola “doxa” in esso contenuta non è “opinione” e “dottrina”, ma “gloria”. L’ortodossia va quindi intesa come il modo giusto di glorificare Dio. Ricordare questa dimensione dossologica della fede e del suo pensiero teologico e renderla fruttuosa per i dialoghi ecumenici è certamente uno dei doni speciali che l’ortodossia può apportare al movimento ecumenico.

b)    Ravvivare l’universalità della fede e della Chiesa in Oriente

Questi sono solo alcuni esempi di ciò che il cristianesimo occidentale potrebbe imparare da quello orientale. Il compito di rispondere alla domanda inversa lo devo lasciare ai rappresentanti del polmone bizantino. Posso quindi fare solo brevi riferimenti in termini di attesa e di speranza.

L’ortodossia ha una forte dottrina sulla Chiesa locale, nel senso che la Chiesa di Gesù Cristo è vista come presente e realizzata in ogni chiesa particolare riunita attorno al suo vescovo, nella quale si celebra l’Eucaristia. A livello mondiale, l’ortodossia si auto-concepisce e si realizza come una comunità di Chiese autonome e autocefale, per cui la sua ecclesiologia è ampiamente caratterizzata dal concetto di autocefalia, da quello del cosiddetto territorio canonico e dal principio nazionale ad esso associato. Ciò significa che le Chiese ortodosse sono fortemente legate alla rispettiva nazione e quindi esistono come Chiese nazionali. La loro forza risiede certamente nel fatto che sono presenti nella cultura in cui vivono i loro fedeli. Tuttavia, il pericolo a cui sono esposte consiste nel fatto che le Chiese nazionali spesso mostrano una propensione a un eccessivo nazionalismo, soprattutto perché la dimensione universale della Chiesa è scarsamente considerata. Sarebbe quindi auspicabile che l’ortodossia, nel dialogo con la Chiesa cattolica, imparasse ad affrontare il suo problema ecclesiologico centrale, ovvero quello dell’autocefalia, interloquisse con l’ecclesiologia cattolica con la sua interazione tra molteplicità di Chiese particolari e unità della Chiesa universale, e pervenisse a una maggiore apertura nei confronti della dimensione universale della Chiesa.

A ciò si aggiunge il fatto che oggi molti membri delle Chiese ortodosse non vivono più nei loro territori canonici tradizionali, ma in Occidente nella diaspora. Dalla cristianità occidentale, che fin dall’Illuminismo europeo ha vissuto e operato in una società segnata ampiamente da un atteggiamento secolarizzato nei confronti della vita, le Chiese ortodosse potrebbero quindi imparare come sia possibile vivere la fede in quanto Chiesa anche in una società del genere. Si tratta certamente di una sfida importante per i cristiani ortodossi che si trovano in una situazione sociale completamente nuova. Il tentativo dell’Europa di costruire società o addirittura una comunità di Stati priva, in linea di principio, di un fondamento religioso, in cui l’universalità di tutte le culture è stata sostituita dall’universalizzazione della ragione tecnica, rappresenta una novità storico-culturale che porta a concludere che l’Europa è l’unico continente veramente secolarizzato.

Questo cambiamento radicale ha conseguenze fondamentali per la configurazione di un rapporto tra fede e politica e in particolare tra Chiesa e Stato, soprattutto perché si sono sviluppati al riguardo concetti molto diversi nella Chiesa in Oriente e in Occidente. Nel corso di una storia lunga e complicata, la Chiesa in Occidente ha dovuto imparare che la forma appropriata di tale rapporto in una società secolarizzata è la separazione tra Chiesa e Stato, che prevede una collaborazione tra queste due realtà. Nelle Chiese d’Oriente, invece, si è sviluppato e mantenuto fino ad oggi uno stretto legame tra governo dello Stato e gerarchia della Chiesa, che di solito viene descritto come “sinfonia” tra Chiesa e Stato e che oggi è gravato da pesanti ipoteche politiche in singole Chiese in Oriente, tra cui in particolare la Chiesa ortodossa russa9 . Negli incontri ecumenici, tuttavia, tale questione potrà essere davvero affrontata solo nel contesto più ampio del cruciale rapporto tra Chiesa particolare e Chiesa universale.

5.     Le vie dell’incontro interculturale

È proprio in vista di questa difficile questione che oggi è necessaria, da entrambe le parti, una disponibilità ecumenica all’apprendimento. Per concludere, consideriamo brevemente i vari modi in cui il dialogo interculturale può svilupparsi nella Chiesa tra Oriente e Occidente.

In primo luogo, il dialogo interculturale tra diverse Comunità ecclesiali richiede che le persone che vivono in culture differenti si incontrino e si conoscano meglio, imparino le une dalle altre e si arricchiscano a vicenda. In quest’ottica, il Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, ad esempio, organizza settimane di studio durante le quali giovani teologi e sacerdoti cattolici visitano una Chiesa ortodossa o ortodossa orientale e ne incontrano i rappresentanti e, a loro volta, giovani teologi e sacerdoti orientali vengono a Roma per conoscere meglio, e di persona, la Chiesa cattolica. Questa iniziativa soddisfa anche la legge fondamentale della psicologia dell’apprendimento, secondo la quale si impara di più facendo esperienze personali che ricevendo informazioni, per quanto valide esse possano essere, ed è più fattibile superare le emozioni ereditate dalla storia e gravate da pregiudizi attraverso contro-emozioni positive.

In secondo luogo, le diverse culture trovano la loro autentica espressione soprattutto nell’arte che producono. È dunque auspicabile uno scambio di opere d’arte e l’organizzazione di mostre in altri contesti per far dialogare due culture diverse. Eseguire concerti comuni, in particolare con cori di diverse Comunità ecclesiali, è estremamente utile a tale scopo. Esistono infatti verità umane fondamentali che possono riemergere solo quando vengono cantate. La musica è senza dubbio il linguaggio più universale che l’umanità conosca, capace di creare ponti straordinari tra le persone. Essa, come dice Sant’Agostino, è “un’espressione di gioia e di amore”.

Questo dimostra chiaramente che il dialogo interculturale dal punto di vista religioso-ecumenico, nonostante tutte le sfide e i problemi che deve affrontare, rappresenta un grande arricchimento per la vita delle persone ed è quindi portatore di gioia. La saggezza popolare esprime questa idea, in tedesco, con il detto: “Se conosci solo l’Inghilterra, non conosci l’Inghilterra”. È possibile conoscere il proprio paese solo se si conoscono anche altre culture e se si guarda alla propria cultura con altri occhi. Questo vale soprattutto per il dialogo tra Oriente e Occidente, come ci ricordano Papa Francesco e il Grande Imam Al-Tayyeb: “È importante prestare attenzione alle differenze religiose, culturali e storiche, che sono una parte essenziale della formazione della personalità, della cultura e della civiltà dell’Oriente. È anche importante consolidare i diritti umani comuni e universali per garantire una vita dignitosa a tutte le persone in Occidente e in Oriente”. Questo è l’obiettivo al quale tende anche il dialogo interculturale in una prospettiva religioso-ecumenica.

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22 novembre 2024, 15:16