Cerca

Gli uffici del Tribunale vaticano Gli uffici del Tribunale vaticano

Il diritto alla difesa

Riceviamo e pubblichiamo una lettera del cardinale Giovanni Angelo Becciu

di Giovanni Angelo Becciu *

Durante questo processo, fino alla sentenza, ho apprezzato l’equilibrio e la precisione di Vatican News nell’informare sul procedimento che, mio malgrado, mi ha riguardato. Le udienze sono state riportate in dettaglio con uno sforzo informativo di cui non posso che congratularmi.

Proprio per questo sono rimasto sorpreso quando ho letto l’articolo di Andrea Tornielli, direttore editoriale del Dicastero per la Comunicazione, intitolato Processo giusto e trasparenza riportato anche da L’Osservatore Romano. Comprendo certo la necessità per i media vaticani di descrivere il processo, che ha riguardato anche me tra gli imputati, come «un processo giusto» e non voglio contestare questa lettura, benché possa averne motivo.

La sentenza prova a rispondere alle molte eccezioni presentate dai miei e dagli altri difensori; eppure basterebbe leggerle senza pregiudizio per rendersi conto che in alcuni casi il diritto di difesa, seppur formalmente garantito, è stato messo a dura prova e svuotato nella sostanza.

Si può pensare che le mie argomentazioni potrebbero essere considerate personali e dettate dall’emozione, percepite nell’opinione pubblica come quelle di un cardinale, che un tempo aveva un grande potere, per la prima volta mandato a processo – del quale si è tenuto il primo grado – per decisione del Santo Padre, e che per questi motivi sarebbe amareggiato e risentito per il fatto che le sue azioni siano scrutinate.

Non devo ricordare l’importanza del ruolo del sostituto. È il tramite tra il Papa e la Segreteria di Stato. Ha per questo autonomia di gestione. Il suo incarico si basa sulla fiducia e su una frequentazione costante con l’autorità superiore, tante volte invocata in questo processo. È il sostituto che deve far funzionare la macchina. È al sostituto che fanno riferimento tutti in Vaticano, dalla Gendarmeria fino allo stesso Tribunale.

Mi rendo conto che in alcuni casi le azioni del sostituto possono essere incomprese, e so di non essere stato esente da errori, come credo sia capitato e capiti a tutti coloro che, per anni, gestiscono un ruolo dalle competenze tanto vaste, delicate ed eterogenee. Ma di un fatto sono certo: ho sempre agito secondo le mie prerogative, senza mai andare oltre i miei poteri e sempre con totale fedeltà alla Santa Sede. L’ho spiegato più volte durante il processo.

Tornielli sottolinea che il Tribunale «ha dato amplissima facoltà di intervento alle ben strutturate difese degli imputati, ha esaminato fatti e documenti senza tralasciare nulla». Dopo aver letto le oltre ottocento pagine della sentenza potrei obiettare sull’espressione «senza tralasciare nulla» ma, come accennato, preferisco soprassedere. Verrà il momento di parlare delle prove a mio favore, totalmente trascurate dalla sentenza, così come dei molti altri errori che emergono dalla lettura delle motivazioni.

Su un aspetto tuttavia sento il dovere di esprimermi: sull’accusa cioè che avrei truffato il Papa in quanto, con il pretesto della liberazione di una religiosa sequestrata in Mali, mi sarei fatto dare dal Santo Padre l’autorizzazione a utilizzare seicentomila euro, quando in realtà erano destinati alla signora Cecilia Marogna con la quale avrei avuto, anche dopo aver conosciuto le accuse, «rapporti del tutto amichevoli, se non di vera e propria familiarità».

Resto davvero allibito e respingo con forza questa illazione! Se avessi truffato il Papa non sarei certo qui a urlare al mondo la mia innocenza! Queste affermazioni sono inaccettabili e soprattutto non supportate da alcuna prova!

Io ho sempre servito lealmente il Santo Padre e quella sofferta iniziativa è stata da me condotta solo ed esclusivamente per portare avanti l’operazione umanitaria concordata con il Papa, senza altra diversa finalità.

Vengo alla seconda parte dell’articolo, dove si tratta «dell’uso di soldi e della necessità di rendere conto», dando per scontato che prima non si dovesse rendere conto a nessuno degli investimenti e oggi invece sì. Ma questa lettura non rispecchia la realtà. Prima c’era un sistema che prevedeva controlli di un certo tipo, ora c’è un sistema che ne prevede altri, differenti, forse più burocratizzati, non necessariamente migliori. Prima c’era una autonomia di gestione affidata alla Segreteria di Stato, adesso la Segreteria di Stato non ha più il potere di gestire denaro, ma questo non significa che non ci sia più un centro con autonomie decisionali. Semplicemente, si è spostato altrove.

Tornielli scrive addirittura di «triste storia dell’azzardato investimento nel fondo di Mincione di ben 200 milioni, cifra enorme per un’operazione che non aveva precedenti». La cifra, ne convengo, era enorme. Ma essa fu utilizzata con l’approvazione del Superiore dell’epoca e caldeggiata dall’Ufficio preposto agli investimenti: primo fra tutti, dal capo dell’Ufficio Amministrativo, la cui posizione, come la stessa sentenza ricorda, è stata archiviata.

Che poi non vi fossero precedenti di investimenti simili, su grandi proprietà immobiliari da rivendere, viene affermato senza alcun supporto documentale. Anche in questo caso, basterebbe leggere i documenti pubblici – per esempio i bilanci dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica – per rendersi conto che investimenti simili sono esistiti sin da quando la Santa Sede si è dotata di un assetto finanziario come quello odierno a seguito dei Patti Lateranensi. Tornielli arriva a sostenere che sia «deleterio, per una realtà come la Chiesa, assumere categorie e comportamenti mutuandoli dalla finanza speculativa» perché «sono atteggiamenti che mettono tra parentesi la natura della Chiesa e la sua peculiarità».

Sono costretto, con rammarico, a non commentare il tono vagamente moralista da parte di Tornielli, che deplora il fatto di non essersi comportati da «buoni padri di famiglia» e arriva a scrivere che «diversificare gli investimenti, considerare il rischio, stare alla larga dai favoritismi e soprattutto evitare di trasformare i soldi che si maneggiano in uno strumento di potere personale sono insegnamenti da trarre dalla vicenda di Sloane Avenue». Non commento perché voglio pensare che Tornielli scriva solo in maniera generica, non riferendosi al sottoscritto o a imputati particolari. E, soprattutto, vorrei sperare che l’esito di un processo penale non dipenda dagli atteggiamenti o dalle diverse sensibilità sugli obiettivi di fare del bene.

Qui si fanno processi alle intenzioni. Siamo di fronte a un processo penale, non di fronte a un processo finalizzato a impartire insegnamenti. Ora è del tutto evidente che un articolo come quello di Tornielli considera me e tutti gli imputati già condannati in via definitiva. Non si scrive mai che il processo è in primo grado, che tutti gli imputati hanno diritto all’appello e che dunque siamo tutti, non solo io, presunti innocenti.

Un presunto innocente – mi sia permesso di scrivere per quanto mi riguarda – condannato per peculato anche se non ha ricevuto alcun vantaggio finanziario: né per sé né per i suoi familiari, come ha acclarato la stessa sentenza. La quale sottolinea che la mia difesa, anche fuori dall’aula, ha sempre rivendicato l’accertata assenza del benché minimo vantaggio economico personale.

Un presunto innocente – aggiungo – che è stato coinvolto nello sforzo di aiutare la Santa Sede a uscire dalle sacche di un deficit che sembra non avere fine, e sono certo che non è stato solo a causa dell’investimento di Sloane Avenue, il quale era potenzialmente un ottimo investimento.

Un presunto innocente – infine – che ha perso tutto non in nome dei fatti, ma di una percezione ideologica dei fatti. Vorrei che vi fosse l’onestà intellettuale di riconoscere che questa presunzione non vi è mai stata. Sin dalla prima conversazione con il Papa sull’argomento sono stato considerato colpevole e additato sui giornali come corrotto e persino insultato. Sembra che la volontà politica sia solo di chiudere la narrazione sul processo cercando di non danneggiare la Santa Sede o il Papa. Peccato però che su questo altare debba essere sacrificata la verità. Ma la verità, secondo un detto attribuito a sant’Agostino, è come un leone e si difenderà da sola.

 

* Cardinale diacono di San Lino

Prefetto emerito della Congregazione delle Cause dei Santi

Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui

11 novembre 2024, 15:30