Roma, “ospitagliera e amorevole”: l'accoglienza dei poveri durante i giubilei
Maria Milvia Morciano - Città del Vaticano
In occasione dei giubilei, le cronache del tempo insistono sulle “turme grandissime” di pellegrini che giungevano a Roma “dall’universo mondo”. Solo i più abbienti potevano trovare alloggio nelle locande, negli alberghi o nelle camere d’affitto, ma ai poveri, che erano anche la stragrande maggioranza, tutto questo era precluso. Non solo nella Roma dei giubilei ma già nei secoli precedenti, l’Europa e la Terra Santa erano costellate da una fitta rete assistenziale. Lungo le vie di pellegrinaggio, c'erano xenodochia - ovvero ospizi - e hospitalia, interni ed esterni ai monasteri, che assicuravano gratuitamente alloggio, cure sanitarie ai poveri e ai pellegrini.
A Roma l’accoglienza era organizzata attraverso l’opera di istituzioni che già nei tre secoli successivi al primo giubileo del 1300 avevano superato il centinaio. Gli stranieri potevano fare affidamento anche sulle fondazioni nazionali legate ai Paesi d’oltralpe, o alle “nazioni” delle diverse aree della penisola italiana, mentre i pellegrini infermi potevano beneficiare dei servizi dei grandi ospedali pubblici romani, come Santo Spirito in Sassia.
Roma, la più “ospitagliera e amorevole”
Nel 1601 Camillo Fanucci, nell’introduzione al suo Trattato di tutte l'opere pie dell'alma città di Roma, scrive: "Se nell'anno santo mille cinquecento settantacinque io restai meravigliato, per le gran carità, che furono fatte in Roma, à ogni sorte di gente, qual venne a Roma per acquistare il santissimo giubileo, in questo del mille seicento son restato attonito, stupefatto e quasi fuora di me stesso, havendo visto le grandissime, e immense opere di carità e pietà, fatte dalle confraternite di detta città...".
Di nuovo nel 1679 l’abate Carlo Bartolomeo Piazza, degli Oblati di Milano, conferma questa stessa impressione nel suo trattato Opere pie di Roma, scrivendo che, come la città aveva accolto Pietro e Paolo, antichi pellegrini inviati da Cristo, così “sopra tutte le città del mondo [ha] la gloria di essere stata, e di essere la più amorevole ospitagliera di tutte”. L’abate elenca inoltre, anche se in modo sommario, tutte le istituzioni destinate all’assistenza dei pellegrini forestieri ma anche dei romani poveri. Roma gode della carità del Papa, “padre universale de’ poveri di tutte le nazioni del mondo e dispensatore di tutto il suo patrimonio” attraverso le “limosine che privatamente distribuisce e quelle che passano per le mani del suo elemosioniero maggiore” arrivando, riferisce Piazza, a 10.000 scudi al mese, distribuite ai diversi poveri “vergognosi” - persone che erano state umiliate dalle avversità e si vergognavano di mendicare il pane - inoltre agli spedali, ai monasteri maschili e femminili e ai diversi luoghi pii di Roma.
Misure preventive
Prima di ogni giubileo, le autorità pontificie si organizzavano con delle misure che garantissero alla città la capacità di far fronte al grande flusso di visitatori. Si provvedeva a importare per tempo ingenti scorte alimentari e legname, ma non sempre si riusciva a far fronte alle necessità, anche perché talvolta l’interesse dei privati finiva per viziare i prezzi di beni e servizi, che si cercava di prevenire mediante editti e notificazioni. Le fonti raccontano l’avidità di osti, locandieri e albergatori, come Matteo Villani, fratello di Giovanni e continuatore della Nuova Cronica dopo la morte di quest’ultimo durante la peste del 1348, che racconta come durante il secondo giubileo, quello del 1350, “I Romani tutti erano fatti albergatori […] e per guadagnare disordinatamente, potendo lasciare avere abbondanza e buono mercato d'ogni cosa da vivere a' romei, mantennero carestia di pane, e di vino e di carne tutto l'anno”. La quantità di persone che si riversava a Roma era tale che spesso neppure chi era disposto a pagare un alloggio riusciva a trovarlo ed era costretto a dormire all’addiaccio.
Giubileo e tutela degli inquilini: misure papali
Le autorità pontificie, oltre che organizzare l’arrivo dei pellegrini, dovevano anche tutelare i cittadini romani che rischiavano di cadere vittime dell’aumento incontrollato degli affitti che si verificavano durante il giubileo. Risale al 1549 il decreto promulgato da Papa Paolo III che vietava l’aumento delle pigioni e gli sfratti durante l’Anno Santo del 1550. Stessa cosa fece Leone XII per il giubileo del 1825, come recita il decreto di Guido Ascanio Sforza di Santa Fiora, cardinale diacono di Sant’Eustachio, camerlengo della Santa Chiesa Romana: “Dietro mandato del nostro santissimo signor papa Paolo III... stabiliamo e ordiniamo che in futuro, in vista dell’anno santo o giubileo, sempre quando ricorrerà un anno del genere, per un anno prima e per il detto anno santo o giubileo la pigione delle case non possa essere aumentata agli inquilini da parte dei padroni delle medesime, né essere alterato il modo di pagare la pigione. Inoltre... al fine di evitare liti e controversie... ordiniamo che sia l’inquilino stesso, sia il subinquilino del medesimo non può essere espulso dalla casa affittata o subaffittata ai medesimi dal padrone di essa”. L’affittuario per riavere la sua casa doveva “giurare di non affittarla ad altri ma di abitarla lui stesso per un anno, pena, in caso di spergiuro, la perdita per due anni della pigione della casa di cui si tratta”.
Dar da mangiare agli affamati
L'accoglienza dei pellegrini doveva essere gratuita e quindi l’onere di sfamare gli ospiti del convento ricadeva sui monaci che vedevano diminuire anche le razioni a loro assegnate, soprattutto quando dovevano ospitare pellegrini di rango elevato accompagnati dal seguito, anche se spesso questi ultimi si sdebitavano lasciando privilegi, fondi o diritti oppure facevano donazioni. Per i giubilei del XVI secolo esiste una copiosa documentazione nell’arciconfraternita della Santa Trinità dei Pellegrini, compreso il menù della cena, unico pasto, perché i pellegrini durante il giorno erano in giro per chiese e non mangiavano. Per un servito di 356 persone l'elenco dei cibi prevedeva insalata, pane, carne e grandi boccali pieni di vino e per chi “non mangiasse carne e volesse bevere acqua” c'erano menu di pesce o di altro di magro. Durante il Giubileo del 1675 si racconta che i pesci serviti per la carità di monsignor Giuseppe D'Aquino, auditore generale della reverenda camera apostolica, erano così buoni, vari e numerosi che “non solo empirono le mense, ma le tasche de’ pellegrini”.
Ospedali
Tra basso medioevo e prima età moderna la presenza di comunità straniere a Roma assunse una dimensione più stabile e organizzata, ritagliando anche "zone di influenza" nel tessuto cittadino, spesso intorno alle sedi di ambasciate, in particolare per i Paesi di maggiore peso politico, come Spagna e Francia. Fin dal tardo medioevo le diverse comunità straniere avevano fondato ospizi e confraternite nazionali, che negli anni giubilari furono molto attive nell'ospitare i propri connazionali in pellegrinaggio ai luoghi santi. Tra le più importanti fondazioni d'oltralpe ci sono l’Ospedale di San Giacomo e San Ildefonso che accoglieva i pellegrini spagnoli a Roma e San Luigi dei Francesi per quelli d'oltralpe. Oltre alle "nazioni" numerose furono le fondazioni di Stati della Penisola italiana, come San Giovanni dei Fiorentini.
Negli anni successivi al primo giubileo si contavano 25 ospizi che si moltiplicarono nel tempo fino ad arrivare alle significative fondazioni del XVI secolo. Tra i più importanti ospedali troviamo il Santo Spirito in Sassia, poi quello del santissimo Salvatore presso San Giovanni in Laterano, quello di San Giacomo degli Incurabili e quello di Santa Maria della Consolazione al Foro romano. Si ricordano tra gli altri anche l’ospedale di Sant’Antonio, dove avrebbe alloggiato san Francesco, l’ospedale di San Giacomo ad Augusta e la fondazione dell’ospedale della Pietà che più tardi si specializzò nella cura dei malati di mente prendendo così il nome di Pietà dei Pazzerelli; infine, l’ospedale molto legato ai giubilei e alla figura di san Filippo Neri, La Santissima Trinità de’ Pellegrini.
Mentre nei secoli precedenti non si faceva distinzione tra l’ospitalità ai pellegrini e assistenza ai malati, nel tempo avvenne una progressiva specializzazione fino a raffinarsi ulteriormente destinandosi alla cura di specifiche malattie. Nel XVII secolo a Roma si contano circa venti ospedali pubblici e circa ventisette ospizi, ognuno legato a diverse nazionalità e legati a confraternite. Tra queste, le più antiche sono quella del Gonfalone e quella del Santissimo Salvatore, quest'ultima legata al culto del Cristo del Sancta Sanctorum presso il Laterano, quindi la confraternita del Santissimo Crocifisso, legata al Crocifisso miracoloso della chiesa di San Marcello al Corso, l'Arciconfraternita della orazione e morte - che si preoccupava di dare sepoltura ai pellegrini poveri, morti durante la permanenza a Roma - la Confraternita del Santissimo Sacramento o della Perseveranza, con sede nella chiesa di San Salvatore alle Coppelle, e infine l'ospizio di San Michele a Ripa, una delle maggiori opere caritative dell’Urbe, voluta da Innocenzo XII in previsione del Giubileo nel 1700.
Il più antico ospedale d’Europa: Santo Spirito in Sassia
Sul luogo dell'antica Schola Saxorum, sulla riva del Tevere, l’ospedale di Santo Spirito in Sassia fu rifondato ad usum infirmorum a et paperorum da Innocenzo III nel 1201. Elogiato anche da Martin Lutero per la sua efficienza, aveva circa trecento letti e per secoli accolse pellegrini, malati e bambini “projetti” (abbandonati). Nella regola dell’ospedale si diceva che un giorno alla settimana i poveri malati dovevano essere ricercati per le strade e le piazze e trasportati nella casa di Santo Spirito per essere curati con “somma premura” e sempre nella regola si legge che i poveri comuni che volessero farsi ospitare nella casa Santo Spirito "fossero accolti volentieri e trattati caritatevolmente". L’ospedale fu ristrutturato da Sisto IV tra il 1473 e il 1480 – ovvero alcuni anni dopo il famoso incendio di Borgo, dipinto nelle Stanze Vaticane da Raffaello e aiuti nel 1514 - e dedicato al ricovero dei neonati abbandonati. Ancora un secolo dopo Sisto V lo trasformò in archiospedale. Era provvisto anche di un cimitero dove venivano sepolti i pellegrini morti durante la degenza e alla fine del Settecento fu affiancato dall'ospedale di San Carlo.
La Santissima Trinità dei pellegrini e dei convalescenti
La Confraternita della Santissima Trinità dei pellegrini e dei convalescenti fu fondata nel 1548 con il nome Santa Trinità del Sussidio. La confraternita ha legato il suo nome all’opera fondamentale di san Filippo Neri e il suo scopo era quello di garantire ospitalità e assistenza ai pellegrini poveri o infermi. Fu riconosciuta da Papa Paolo III e già nel 1554 ne furono pubblicati gli statuti. Durante il 1550 la Confraternita ospitò presso la propria casa i pellegrini che erano venuti a Roma per il giubileo di quell’anno, sopperendo all’endemica mancanza di alloggi. A partire dal XVI secolo, vi fu una ristrutturazione del supporto assistenziale e logistico dell’associazionismo delle confraternite. L’accoglienza e l’ospitalità materiale alla Trinità erano regolate da norme rigorose e dettagliate dei suoi statuti, cui dovevano adeguarsi sia i pellegrini sia gli officiali. In seguito l’attività della Confraternita fu estesa all’assistenza dei degenti, dimessi dagli ospedali ma bisognosi di assistenza, dando vita al primo convalescenziario d'Europa. Paolo IV appoggiò l'iniziativa e nel 1558 concesse in perpetuo alla Confraternita la Chiesa di S. Benedetto alla Regola, che poco dopo mutò il suo titolo in quello della Santissima Trinità. Pio IV riconfermò l'istituzione e approvò gli statuti e i regolamenti della Confraternita e nel 1562 le concesse il titolo di Arciconfraternita. Nell'Anno santo 1575 l'istituzione si distingueva per l'alto livello di efficienza e di specializzazione e meritò in quella occasione i riconoscimenti pontifici, che si tradussero il nel 1576 con la concessione di nuovi privilegi.
Un santo autentico interprete del giubileo
Se c’è una figura su cui confluiscono tutti i significati spirituali del giubileo traducendosi anche in gesti concreti, è quella di san Filippo Neri. La sua ripresa dell’antica pratica devozionale del “giro delle Sette Chiese” divenne un itinerario integrante dei pellegrinaggi giubilari. Abbiamo già accennato alla fondazione della Trinità dei pellegrini, ma il santo era anche membro dell’ospedale di San Giacomo in Augusta, detto "degli Incurabili”, lo stesso dei santi Camillo de Lellis, Gaetano da Thiene e Felice da Cantalice, e prestò inoltre assistenza ai malati nell’ospedale di Santo Spirito e in quello di San Giovanni. Fu pellegrino tra i pellegrini: molti luoghi di Roma recano testimonianza del suo passaggio e della sua intensa attività di assistenza verso i più poveri, gli infermi e i reietti. Nella chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini il santo è raffigurato con un grembiule bianco, alludendo così a un momento fondamentale dell’accoglienza ai pellegrini che a sera avevano i piedi piagati per il lungo cammino penitenziale, fatto anche da scalzi. Un rito che ripeteva il gesto di Cristo nel Giovedì santo e che materialmente seguiva il suo esempio. Il grembiule di Filippo racchiude in sé l’immenso spirito di servizio che orientò la sua vita.
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