“Donne Chiesa Mondo”, la terra sacra e la casa perduta
di Lidia Ginestra Giuffrida
Ha una voce dolce ma allo stesso tempo chiara e decisa, Alice Kishiya, trentenne cristiana cattolica di Betlemme, mentre descrive le emozioni che le suscita la parola casa: «Casa sono i ricordi con le persone che ami, il luogo in cui sei nato, la sensazione di essere al sicuro, di calma, il luogo dove i tuoi cari ti aspettano e dove tu aspetti loro. Non si tratta di un edificio o di qualcosa di materiale, si tratta di amore e famiglia».
Lei queste sensazioni non le prova più da quando, lo scorso 30 luglio, è stata cacciata dalla sua casa e dal suo terreno nel quartiere di el-Makhrur, alle porte di Betlemme. «Questo è l’ultimo villaggio interamente cristiano rimasto nella Cisgiordania occupata», racconta Alice mostrando la vallata verde che si stende al di là dei tetti bianchi. Il suo dito indica le viti e gli ulivi. «Questa natura per noi è molto preziosa - dice - Per noi cristiani questo è un luogo sacro, risale ai tempi dei Romani, è qualcosa di biblico».
El-Makhrur, già patrimonio dell’Unesco , è un villaggio palestinese che conta circa duecento famiglie a maggioranza cattolica e che si trova in una delle aree C della Cisgiordania, quelle occupate dai coloni israeliani. La casa di Alice è stata confiscata proprio da questi ultimi, una privazione che ha segnato l’identità della donna al punto da presentarsi così a chi non la conosce: «Sono di Betlemme e la mia terra è stata confiscata dai coloni».
La storia di questa giovane donna radicata e determinata, inizia più di quindici anni fa, quando il ristorante della famiglia Kishiya venne demolito illegalmente per la prima volta dall’esercito israeliano, con la scusa che quella era diventata una zona militare chiusa. «Dopo la prima demolizione decidemmo di costruire una piccola tenda dove la gente poteva venire a gustare il cibo arabo nella natura. Ad un certo punto divenne un punto di incontro per tutti, israeliani, palestinesi e stranieri da tutto il mondo che venivano a sedersi lì, era un luogo di amore e di pace. Fino a quando non hanno demolito anche la nostra casa».
Da allora la casa dove Alice abitava con i genitori è stata distrutta quattro volte, ogni volta che veniva ricostruita i coloni con l’esercito la buttavano giù nuovamente. «Dopo la demolizione della casa e del ristorante nel 2019 - continua questa giovane piena di coraggio - abbiamo iniziato a dormire nelle tende e ogni tenda in cui dormivamo veniva puntualmente demolita, questo è successo altre 17 volte, alla fine con la guerra a Gaza hanno approfittato della situazione e del fatto che l’attenzione mediatica fosse tutta sulla Striscia, per sfrattarci completamente dal nostro terreno sostenendo di aver acquistato la terra». In tribunale, però, non sono mai stati in grado di dimostrarlo, e i documenti presentati dai coloni si sono presto rivelati falsi. Tuttavia alla famiglia Kishiya non è più stato permesso di tornare a casa.
Da allora Alice si è fatta portavoce della lotta della sua famiglia, che è la stessa di tanti e tante in Palestina, attraverso lo strumento della fede e della nonviolenza. «Da allora ho iniziato ad invitare persone, attivisti e chiese, imam, rabbini, sacerdoti, chiunque volesse mostrare solidarietà era il benvenuto e lo è tuttora. - spiega - Abbiamo iniziato proteste nonviolente, pacifiche, con eventi interreligiosi. Per esempio la veglia fatta il 29 settembre scorso a cui hanno partecipato, in collegamento, più di 25 comunità in tutto il mondo. Con noi quel giorno c’erano cristiani, musulmani ed ebrei che hanno pregato tutti insieme nel pieno della guerra, abbiamo fatto insieme la messa della domenica ed è stato incredibile. Il mese successivo, abbiamo avuto lo Shabbat interreligioso, dove anche noi cristiani e musulmani abbiamo pregato insieme agli ebrei».
Per Alice lottare celebrando la vita, in una terra di morte e violenza, è lo strumento più rivoluzionario da usare. La fede è il suo faro e lo precisa ogni volta che parla di resistenza e speranza. «Il caso della mia famiglia ha dimostrato che in questa terra ci sono spazi in cui possiamo accettare l’altro; le persone che ci stanno sostenendo condividono tutte lo stesso principio: credono nella loro umanità. Credono negli insegnamenti di Gesù Cristo. Questo è il tempo di stare insieme non importa quale sia la propria origine, il proprio background religioso o le proprie credenze, possiamo condividere e accettare l’altro, e lo dobbiamo fare per vivere insieme in pace. È questo che conta davvero nella nostra comunità interreligiosa», continua.
Da quattro mesi a questa parte la vita di Alice è diventata un succedersi di violenza, abusi e arresti infondati. C’è una foto che la ritrae faccia a faccia con un colono israeliano in abiti militari, ha fatto il giro del mondo ed è diventata un manifesto simbolo della lotta delle donne palestinesi. «Non ho paura - dice con voce ferma la donna - perché so di essere nel giusto, perché la mia è una lotta d’amore, fatta con amore. Non combattiamo con l’odio. Sono sicura che l’amore, la convivenza e l’unità possano portare la pace. Ed è questo che accadrà perché questo è l’insegnamento di Gesù». Poi prende delle foto, le sfoglia e mostra quella della tenda da lei realizzata per la preghiera: «Questa è una chiesa che abbiamo costruito in pochi giorni insieme ad attivisti cristiani, ebrei e musulmani. I coloni e l’esercito hanno, poi, demolito la chiesa pezzo per pezzo e hanno portato via con loro quello che ne restava. Ma noi la ricostruiremo».
Poco lontano dal villaggio di el-Makhrur, guidando verso Betlemme, l’entrata della città appare spettrale. «Gesù nacque in Palestina a Betlemme. Questa è la culla di Gesù», continua Alice, «adesso questa terra è in ginocchio e lo siamo anche noi. Betlemme ha sempre vissuto di turismo, ora la situazione economica è al lastrico. Sono circa 40 le famiglie cristiane che dal 7 ottobre 2023 ad oggi hanno lasciato Betlemme e non sono mai più tornate».
Intanto il sole cala tiepido tra i monti, dietro gli stessi ulivi che Alice chiama sacri. La donna li guarda, sorride e mormora: «El-Makhrur è sempre stata una terra cristiana».
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